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Versari, Maria Elena. “IVb. L’avventura Di Una Piuma, Di Una
Pallina Di Vetro e Di Un Cavalluccio Marino: Riflessioni
Metodologiche Sulla Storia Materiale Delle Opere Futuriste.” In
Materia: Journal of Technical Art History (Issue
5). San Diego: Materia, 2025.
http://materiajournal.com/essay_versari_italian/.
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Versari, Maria Elena. “IVb. L’avventura Di Una Piuma, Di Una
Pallina Di Vetro e Di Un Cavalluccio Marino: Riflessioni
Metodologiche Sulla Storia Materiale Delle Opere Futuriste.”
Materia: Journal of Technical Art History (Issue
5), Materia, 2025,
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IVb.
L’avventura di una Piuma, di una Pallina di Vetro e di un
Cavalluccio Marino: Riflessioni Metodologiche sulla Storia
Materiale delle Opere Futuriste.
Maria Elena Versari
Nel 1958, tre polimaterici del futurista Enrico Prampolini
entrarono nella collezione di Harry Winston e Linda Kahn
Winston (poi Malbin). Nell’aprire le casse, gli Winston si
accorsero dei danni sostenuti dalle opere durante la
traversata atlantica e iniziarono una intensa corrispondenza
con il fratello dell’artista, Alessandro Prampolini, con
l’intento di restaurarle.
Questa corrispondenza segna il momento d’inizio di una vasta
documentazione di restauro, accumulata negli anni dai
collezionisti e ora conservata nell’archivio Winston Malbin.
Il saggio qui presentato è il primo a studiare in maniera
sistematica questa fonte archivistica unica e si propone di
chiarire il sistema di sostituzioni, manipolazioni e
ricostruzioni che hanno caratterizzato la vita di alcune
delle più importanti opere futuriste di Giacomo Balla, Gino
Severini, Luigi Russolo, Enrico Prampolini e Umberto
Boccioni.
I documenti rivelano caratteristiche tecniche e costruttive
finora sconosciute delle opere in questione. Rivelano
altresì il rapporto che si venne a creare tra preferenze
curatoriali, interpretazioni estetiche e scelte
conservative. Data l’importanza della storia materiale delle
opere d’arte rivelata da questi documenti, il saggio
sostiene non solo la necessità di impiegare in maniera più
sistematica i dati provenienti dalle campagne di restauro
negli studi storico-artistici, ma anche quella di inserirli
tra le informazioni di base sulle opere offerte da cataloghi
ragionati, cataloghi online e database di istituzioni
pubbliche e private.
Siamo nel giugno 1958. Alessandro Prampolini, meglio
conosciuto con lo pseudonimo di Vittorio Orazi, entra nella
stanza del fratello Enrico morto due anni prima. Lo spazio non
è grande. Sul pavimento, un tappeto disegnato da Enrico, ai
muri alcuni mobili anch’essi disegnati da lui; su di un lato,
un grande transetto vetrato separa la camera dalla studio
dell’artista. Alle pareti solo tre quadri:
Automatismo Polimaterico A,
Automatismo Polimaterico C e
Automatismo Polimaterico F (Ills. 1, 2, 3).1
ExpandIll. 1Fotografia dell’opera di Enrico Prampolini,
Automatismo Polimaterico A (1940, cm. 30.5 x
42, collezione privata) inviata ad Harry e Lydia
Winston da Alessandro Prampolini nel 1958, Beinecke
Rare Book and Manuscript Library, Yale
University.ExpandIll. 2Enrico Prampolini,
Automatismo polimaterico C, 1940,
polimaterico su tavola 33 x 40.6 cm, Giancarlo e Danna
Olgiati Collection, Lugano.ExpandIll. 3Enrico Prampolini,
Automatismo polimaterico F, 1941, collage e
olio su tavola 32,4 x 40.6 cm, Collezione Giancarlo e
Danna Olgiati, Lugano.
Alessandro si avvicina e stacca dai muri i tre polimaterici.
Li osserva, per l’ultima volta, prima di metterli da parte.
Partiranno il 26 giugno 1958 per l’America, a bordo di un
transatlantico della Cunard Lines. Sono stati acquistati dalla
coppia di collezionisti di Detroit Harry Winston e Lydia Kahn
Winston (poi Malbin) per la loro già notevole raccolta di arte
moderna.
La storia di questi tre polimaterici, e di diverse altre opere
futuriste acquistate dai Winston, offre l’occasione per
riflettere sulla storia materiale dell’arte del Novecento, un
tema ancora poco considerato in relazione a questa produzione
artistica.
Cosa guardiamo veramente quando guardiamo un’opera d’arte?
Possiamo affermare con sicurezza che quel dettaglio di colore,
il bilanciamento cromatico tra pittura e sfondo, il riflesso
di luce dato da un lustrino, la selezione di quell’oggetto
specifico inserito in un collage, e incollato in quella
particolare posizione nell’economia della composizione, sono
effettivamente scelte compiute dall’artista? A differenza
della percezione che abbiamo dell’arte antica, per la quale la
presenza di manipolazioni successive permane ormai come ombra
inalienabile dell’originalità, l’arte moderna è ancora
percepita come un raggruppamento di opere che hanno conservato
la loro identità primigenia. Per le opere del Medioevo e del
Rinascimento ci aspettiamo che il tempo abbia lasciato ben più
di una patina, tutta una serie di indizi che ci suggeriscono
le preoccupazioni e le interpretazioni, l’amore e le
omissioni, di tutte quelle generazioni di persone che non
conosciamo ma che ce le hanno trasmesse, di mano in mano,
attraverso i secoli. Anche se le tracce non sono sempre
evidenti, l’idea che un’opera sia stata tagliata, reintelata,
corretta, ripulita, sbiancata,2
riverniciata, annerita, bucata e rattoppata, ridipinta,
firmata e rifirmata è sentita come sempre possibile, e diviene
ormai parte indistinguibile di quello che Alois Riegl definì
valore intrinseco legato all’età dell’opera stessa.
3
Per le opere moderne, e in particolare per quelle futuriste,
che si definiscono esplicitamente e volontaristicamente come
moderne, l’idea stessa della modernità sembra invece aver
cauterizzato la percezione del procedere temporale, quasi che
un’opera futurista non sia per definizione soggetta al tempo,
e alla manipolazione che il tempo e i suoi custodi le
impongono. Ciò da un lato è dovuto al valore che diamo al
momento concettuale nella definizione stessa di arte moderna.
È il tocco originale dell’artista, che concepisce l’opera
attraverso decisioni precise, a definirne l’identità. È nella
concezione che si cristallizza l’opera. La realizzazione
materiale diventa dunque un elemento necessario ma secondario,
che non può e non deve rivelarsi in alcun modo problematico
per non alterare la centralità ideativa dell’arte moderna.4
La conservazione dell'arte moderna ha ricevuto, inoltre, meno
attenzione della conservazione dell'arte contemporanea, che
sembra quasi ostentare il proprio invecchiamento davanti ai
nostri occhi.5
L'arte moderna sembra risiedere dunque, in una sorta di
amnesia materiale e temporale. Per le opere futuriste, questa
amnesia materiale e temporale è rafforzata dalle
caratteristiche proprie dell'epoca in cui il Futurismo è nato
e si è sviluppato. Le opere futuriste hanno vissuto all'epoca
di una rivoluzione nelle pratiche conservative e di restauro.
Se nell'Ottocento si poteva smontare un polittico, tagliare
una tavola o lavare una tela con la soda caustica, nel
Novecento queste pratiche sono state apertamente criticate
come anacronistiche e rifiutate.
6
Progressivamente, abbiamo acquisito la prospettiva che la
manipolazione delle opere d'arte fosse il risultato di
un'epoca passata, qualcosa che non avrebbe retto al giudizio
dei nostri tempi (futuristi). Inoltre, gli stessi futuristi
rifiutarono a gran voce, nei loro manifesti, l'idea che la il
passare del tempo costituisse di per sè un valore. Nel
Manifesto di Fondazione del Futurismo (1909), Filippo
Tommaso Marinetti scrisse: "E vengano dunque, gli allegri
incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!.… Suvvia!
date fuoco agli scaffali delle biblioteche!.… Sviate il corso
dei canali, per inondare i musei!.…Oh, la gioia di veder
galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le
vecchie tele gloriose!.…"7
Questa purificazione celebrativa dal passato da parte del
presente non doveva risparmiare i futuristi stessi. Marinetti
evocò apertamente l'immagine di una nuova generazione che
avrebbe dovuto gettare i futuristi "nel cestino," in
un ciclo incessante di distruzione e pulizia dei resti
artistici.8
Nel Manifesto dell'architettura futurista (1914),
leggiamo: "I caratteri fondamentali dell'architettura
futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case
dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la
sua città."9
Pur abbracciando ostentatamente questa obsolescenza voluta,
nel corso degli anni i futuristi si impegnarono in pratiche di
aggiornamento più sottili. Già negli anni Dieci,
ripubblicarono sistematicamente i loro manifesti con minime
correzioni, rivelando l'evoluzione delle loro preoccupazioni
teoriche.10
Sono noti anche per aver corretto le loro stesse opere d'arte.
Nel 1912, prima di esporre a Parigi, ridipinsero diverse tele
per eliminare ogni dettaglio troppo naturalistico o
tradizionale.11
Il più famoso di questi aggiornamenti futuristi è
probabilmente quello attuato su
Le nuotatrici
di Carlo Carrà (1910-12; Carnegie Museum of Art, Pittsburgh).
Le donne, che ora sfoggiano costumi da bagno colorati, erano
originariamente ritratte nude.12
Nel 1914, poche settimane dopo la pubblicazione del suo libro
Pittura scultura futuriste, Umberto Boccioni affrontò
la questione della temporalità delle opere d'arte, e di quelle
futuriste in particolare, scrivendo: "Quando guardiamo un
capolavoro - nessuno sa mai bene quale opera meriti questo
nome - dobbiamo pensare che esso è il superstite di migliaia
di capolavori, abortiti o scomparsi, e che nella vita stessa
del suo autore esso rappresenta un momento completo forse, ma
alle volte non il migliore nel senso di scoperta e
d'indicazione. Quest'opera chiamata capolavoro è rimasta in
vita per mille ragioni ignorate e casuali, tra migliaia di
schizzi, abbozzi. quadri, ecc., periti per altrettante ragioni
ignorate e casuali. Non dimentichiamo che la tradizione ci
tramanda il capolavoro attraverso le generazioni, ognuna delle
quali mediante la letteratura e la poesia lascia sul
capolavoro una stratificazione, sedimento poetico che rende
l'opera irriconoscibile."13
Per Boccioni, quindi, la storia materiale di un'opera d'arte
era intrinsecamente connessa con la storia della sua
interpretazione critica, cosa che poteva portare a un accumulo
di malintesi.
Il netto rifiuto che i futuristi posero all'idea di
conservazione, unito alle innovazioni novecentesche nelle
pratiche della conservazione stessa, potrebbero far pensare
che le opere futuriste siano in qualche modo naturalmente
protette dalla loro fragilità materiale e da qualsiasi forma
significativa di manipolazione. Possiamo invece trovare esempi
eclatanti del contrario.
Il restauro, anzi i ripetuti restauri, di
Dinamismo di un cavallo in corsa + caseggiati
di Boccioni, ora alla Guggenheim Collection di Venezia, è
stato definito giustamente "problematico."14
Quando, nel 1986, il museo decise di restaurare l'opera,
studiosi e tecnici si confrontarono in un vivace dibattito
sulla necessità di eliminare o mantenere gli elementi che
erano stati aggiunti durante un precedente restauro effettuato
negli anni Quaranta. In una rara iniziativa, il dibattito
stesso fu poi reso pubblico insieme a un resoconto dettagliato
delle scelte metodologiche che accompagnarono il processo di
restauro.15
Più recentemente, la maniera in cui l’opera era stata esposta
da Marinetti in casa sua ha sollevato nuovi interrogativi
sulla sua concezione originale e sul modo in cui era stata
costruita.16
Questa volontà di individuare a tutti i costi l'idea originale
dell'artista ha però in qualche modo oscurato i problemi
tecnici propri dell'opera di Boccioni. Gli studiosi hanno
affrontato la sua scultura come una manifestazione senza
soluzione di continuità dei suoi dipinti e delle sue teorie.
Quando l'aspetto attuale di un'opera non corrisponde alle
fotografie storiche, come nel caso della scultura
Antigrazioso
(1913; Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma), gli storici
dell'arte sono stati più inclini a ipotizzare l'esistenza di
più originali, invece di considerare la possibilità che
Boccioni stesso abbia rimaneggiato o riparato il suo lavoro.
Questo atteggiamento critico ha a sua volta offuscato la lotta
dell'artista con le sfide materiali poste dal supporto che
aveva scelto e gli indizi delle successive modifiche e
rielaborazioni che intraprese. Si tratta di un processo che
possiamo invece ripercorrere appieno solo riavvicinandoci allo
sviluppo teorico di Boccioni alla luce della storia materiale
delle sue opere.17
Detto questo, la fragilità delle opere di Boccioni sembra
essere quasi un sottoprodotto del suo approccio sperimentale
unico, e sembra più difficile pensare che altre opere
futuriste abbiano sostenuto cambiamenti così radicali.
Ma torniamo ai nostri polimaterici.
Un viaggio movimentato
All’apertura delle casse, i Winston si accorsero di una serie
di danni che le opere avevano sostenuto durante la traversata
atlantica. Nell’archivio di Lydia Winston Malbin, conservato
alla Beinecke Library, presso l’Università di Yale, si trova
copia della lettera, datata 24 luglio 1958, che i Winston
spedirono ad Alessandro Prampolini. È un vero e proprio
cahier de doléances:
1. Auto Matismo - Poli Materico "A"
dimensioni 31 per 38 centimetri. Questo collage è stato
ricevuto con il cavalluccio marino rotto e la spugna e il
pezzo di gomma staccati, caduti sul fondo del quadro.
2. Auto Matismo - Poli Materico "C"
dimensioni 22 per 42 centimetri. Il gesso è spezzato di
traverso al quadro ed è sbeccato attorno ai sostegni dove è
attaccato.
3. Auto Matismo - Poli Materico "F"
dimensioni 41 per 31 centimetri. Questo è il collage esposto
alla Biennale nel 1942. La pallina di vetro è rotta.
Comunque, questo quadro specifico è in condizioni migliori
rispetto al numero 1 e al numero 2.18
La corrispondenza tra i Winston e Prampolini e i successivi
documenti che attestano i restauri delle opere nella
collezione di Lydia Winston Malbin ci permettono di
comprendere che tipo di interventi si sono succeduti sui
polimaterici. Ci permettono anche, ed è forse questo il lato
più interessante per lo storico dell’arte, di venire a
conoscenza di alcune particolarità delle opere stesse che
soltanto il lavoro di ricostruzione, smontaggio e rimontaggio
può rivelare.
Il 6 agosto 1958 Alessandro Prampolini rispose a Harry
Winston. Gli inviò una lettera con diversi allegati: tre
fotografie delle opere, prese prima della partenza, e una
busta con sette piume d’uccello (ill. 4). In primo luogo,
però, corresse l’indicazione del collezionista riguardo ai
titoli. Winston aveva inavvertitamente indicato
Automatismo Polimaterico C come
Automatismo Polimaterico A e viceversa.
ExpandIll. 4Penne d’uccello e fotografie inviate a Harry e Lydia
Winston da Alessandro Prampolini nel 1958, Beinecke Rare
Book and Manuscript Library, Yale University.
Di Automatismo Polimaterico C del 1940 (ill. 2),
dunque, scrisse Alessandro, né lui né Piero Dorazio, che
l’aveva assistito nella vendita, riuscivano a capire da dove
potesse essersi staccato il cavalluccio marino. Nella foto che
lui possedeva di quest’opera, e di cui mandò una copia a
Winston, non si vedono cavallucci. "Forse era incollato
al disco bianco sulla destra in basso,"19
sostenne, e incluse un disegno su lucido per spiegare dove
potesse essere. Comunque, Alessandro disse di aver scritto a
un vecchio amico a Capri, che aveva già procurato cavallucci a
suo fratello, e promise di mandarne un altro per posta appena
possibile. Per quanto riguarda il pezzo di spugna e il
tubicino in gomma, Alessandro suggerì di riattaccarli seguendo
la fotografia inviata.
Un'altra fotografia, più tarda, che si trova nell’archivio
Malbin, mostra Polimaterico C riassemblato e quasi
del tutto identico all’immagine inviata da Prampolini. Vi si
vede, in particolare, un piccolo disco metallico (il
bilanciere di un orologio), situato verso il centro
dell'opera, a sinistra del disco bianco. Questa ruota è oggi
ancora attaccata all'opera stessa, ma manca nella fotografia
più antica, inviata da Prampolini. Diverse altre ruote dentate
sono inserite in piccoli dischi bianchi, probabilmente di
gesso, sparsi sulla parte superiore destra. In entrambe le
fotografie dell'archivio Winston Malbin (quella inviata da
Alessandro Prampolini e quella più recente), nella zona al
sopra di esse è posizionata una molla. Oggi questo elemento
appare riposizionato in basso, sotto i cinque dischi bianchi
più a destra. Inoltre, alcuni segni sullo sfondo, gruppi di
incisioni leggere che, insieme ai piccoli buchi, movimentano
la superficie, sembrano sparite.20
Torneremo su questi segni e sul restauro delle tre opere, ma
per il momento è importante sottolineare che ancora oggi
permane una certa confusione tra gli studiosi non solo sui
materiali specifici utilizzati da Prampolini nei suoi
polimaterici, ma anche sulla natura di questo tipo di opere.
Nel catalogo della collezione Winston Malbin del 1973,
infatti, sono identificati semplicemente come
"collage" o "collage e olio su tavola";
mentre nella retrospettiva del 1992 dedicata a Prampolini e
curata da Enrico Crispolti, figurano, in modo altrettanto
riduttivo, come "polimaterico su tavola".21
Come già accennato, nella sua corrispondenza Harry Winston
parlava di Automatismo Polimaterico A come di
un'opera in gesso, mentre il catalogo della vendita della
collezione Malbin del 1990 lo riporta come "collage su
ceramica".22
Mostre e genealogie putative
Queste opere ebbero un ritorno in auge inaspettato negli Stati
Uniti, quando l'interesse per la pratica del collage e
dell'assemblage si rafforzò in concomitanza con l'uso che ne
fecero le neoavanguardie. Automatismo Polimaterico C,
in particolare, fu l'unico, tra i polimaterici posseduti dai
Winston, ad essere esposto nel 1961 alla mostra
The Art of Assemblage del Museum of Modern Art
(MoMA). In quell’occasione si incominciò a tentare di
catalogare gli elementi disseminati sulla sua superficie:
"oil on cardboard with rubber tubing, clock works, mica,
sponge, bone."23
La mostra offrì un'interpretazione riduttiva dell'uso del
collage da parte dei futuristi italiani; secondo il curatore
William Seitz, “a differenza dei cubisti, gli obiettivi che [i
futuristi] si proponevano .… non portarono a un esame di
texture, materiali o oggetti.”24Polimaterico C offriva abbastanza, in verità, in
termini di texture e materiali. Gli oggetti non naturali
presenti sulla sua superficie (tubi e ingranaggi di orologi)
si fondono quasi senza soluzione di continuità con il tema
marino della composizione, creando un sottile contrasto tra il
meccanico e il naturale. Scorgiamo una medusa, che si muove
armoniosa e compatta. Solo in un secondo momento ne percepiamo
l'apparato meccanico. La complessa struttura a strati
dell'opera di Prampolini destabilizza la distinzione tra
superficie e sfondo, cosa che critici come Seitz, abituati ai
tradizionali collage cubisti, forse trovarono difficile da
decifrare. Inoltre, per evitare la questione del
coinvolgimento dei futuristi con il regime fascista, Seitz
cancellò l'idea stessa di una sopravvivenza del futurismo dopo
la prima guerra mondiale, affermando che le innovazioni dei
futuristi furono portate avanti "dopo il declino del
futurismo[,] dai dada, che erano pacifisti e di mentalità
internazionale piuttosto che nazionalisti e bellicosi."
25
Per questo motivo, Automatismo Polimaterico C di
Prampolini del 1941 si ritrovò un po' isolato,
appeso sulla parete
di passaggio tra una sala che ospitava collage di carta
incollata - tra cui la
Signora alla colonna pubblicitaria di Kazimir
Malevich del 1914 e la Donna seduta di Henri Laurens
del 1918 - a un'altra sala che esponeva il
Movimento immobile (Mouvement Immobile) di
E.L.T. Mesens del 1960 (carte stampate incollate con
inchiostro su cartone),
La venditrice di frutta variabile (The Variable Costerwoman) di Ceri Richards del 1938 (legno dipinto, metallo
galvanizzato perforato, ottone, bottoni di perle, corda e
spago su tavole di legno parzialmente dipinte) e
Senza titolo di Lee Bontecou del 1960 (acciaio, tela,
stoffa e filo).26
Nel 1974, tutti e tre i polimaterici di Prampolini furono
esposti a Detroit in occasione di una mostra di opere della
collezione Winston dedicata al gruppo Cobra. Qui, di nuovo,
sulla base del modello interpretativo istituito dalla mostra
del MoMA, il rapporto di Prampolini col Futurismo viene
completamente tralasciato. In merito ai polimaterici, il
catalogo recita addirittura: "Queste tarde opere
surrealiste sono legate al Surrealismo e non sono lontane dai
collages di Daniel Spoerri."27
In linea con i quadri-trappola di Spoerri, dunque, a
Detroit Prampolini diventa, insomma, un post-Surrealista,
nonchè un proto-neo-dadaista. Gli assemblaggi di
Spoerri, tuttavia, sono situazioni create per caso e
semplicemente fissate dall'artista a futura memoria. Come ha
spiegato l'artista stesso, le sue "trappole" sono
Oggetti trovati casualmente in situazioni di disordine o di
ordine [che] vengono fissati al loro supporto esattamente
nella posizione in cui si trovano. L’unica cosa che cambia è
la posizione rispetto all’osservatore: il risultato viene
dichiarato un quadro, l’orizzontale diventa verticale.
Esempio: i resti di una colazione vengono attaccati al
tavolo e, insieme al tavolo, appesi al muro.28
Sarebbe difficile immaginare che i polimaterici di Prampolini
avessero semplicemente lo scopo di raggruppare un gruppo di
oggetti sparsi, trovati in quel modo dall'artista.
Rimane a questo punto una domanda: cosa c'è di automatico
nelle opere di Prampolini? "Automatismo" è un
termine che l'artista italiano collegava al concetto di
automatismo psichico, definito dagli scritti di Marinetti e
Breton.
29
È una foma di automatismo che si distanzia dall'idea del caso.
Come spiegava Prampolini stesso nel suo libro del 1944
Arte polimaterica (Verso un'arte collettiva?): l'artista che realizza polimaterici dovrebbe creare sulla
base dell'intuizione e della sensibilità, in uno stato di
"automatismo quasi mediatico."
30
Rispetto ai Surrealisti, che spesso utilizzavano la realtà per
quello che Prampolini definiva un "fine polemico,"
il suo automatismo era vicino al valore evocativo della
materia stessa, nel suo "valore immanente,
biologico."
31
A volte i suoi lavori potevano anche incorporare un organismo
vero e proprio.
Nei suoi polimaterici, Prampolini rielaborò motivi già apparsi
nelle sue composizioni precedenti, improntate
all'"idealismo cosmico."
32
Come chiarì egli stesso in occasione della sua personale alla
Galleria di Roma del 1941, i suoi lavori riflettevano
"una continua variazione del tema del 'divenire della
materia.'"
33
L'inclusione della materia stessa nell'opera conduceva,
secondo l'artista, "alla formazione di una estetica
nuova, all’estetica bioplastica". Riprendendo il
termine "plastico," già codificato da Boccioni,
Prampolini spiegava che i nuovi esperimenti scientifici
avevano portato a una nuova interpretazione estetica della
materia:
Questa libera interpretazione dei nuovi aspetti della
natura, rivelati dalla scienza, ha contribuito a individuare
anche una nuova nomenclatura plastica. La tecnica della
pittura futurista aveva già portato alla
solidificazione dell’impressionismo, alle
linee-forze, alla
compenetrazione dei piani, alla
sintesi di forma-colore. Oggi con l’immanenza delle
forme che si sviluppano e vivono in nuove atmosfere e nuovi
organismi si è giunti a ciò che definisco
analogie plastiche.34
In questo quadro concettuale e lessicale, i polimaterici sono
definiti da Prampolini come opere nelle quali "l’impiego
degli oggetti e delle differenti materie nel loro aspetto
naturale tendono a creare attraverso il loro contrasto una
nuova dimensione emotiva."35
Prampolini tentò ripetutamente di trovare una definizione
appropriata a questo tipo di opere. Tra il 1937 e il 1941,
Prampolini passò dal boccioniano "stato d’animo
plastico" (del Boccioni del 1913-14, di
Pittura Scultura Futurista);36
al, sempre boccioniano, ma soprattutto severiniano,
"analogie plastiche;" al più aggiornato
"automatismo polimaterico." La ricerca teorica
dell’artista, e la sua attenzione al problema lessicale, è
testimoniata anche dal fatto che esistono ben cinque giri di
bozze per il volume che egli pubblica nel 1944,
Arte polimaterica (verso un’arte collettiva?).37
La dislocazione spaziale di queste opere in collezioni
americane nella seconda metà del Novecento ha portato
evidentemente a una sorta di “fagocitazione” della loro
identità artistica da parte di categorie formali e
interpretative proprie delle neoavanguardie internazionali.
Inoltre, la necessità da parte dei Winston di presentare un
sistema genealogicamente coerente sotteso alla propria
collezione ha imposto ai polimaterici la responsabilità di
doversi giustificare di volta in volta di fronte alle ultime
tendenze artistiche. Sarebbe però importante capire se questo
atteggiamento critico abbia avuto un impatto sulla vita
materiale delle opere. La sovrascrittura di Spoerri sulle
opere di Prampolini ha comportato scelte specifiche da parte
dei restauratori?
Confrontando le fotografie di
Automatismo Polimaterico C inviate nel 1958 da
Alessandro Prampolini con quelle conservate nell'archivio
Winston Malbin, abbiamo potuto individuare alcuni segni sullo
sfondo, incisioni e fori, presenti in origine che oggi sono
meno visibili e sembrano quasi cancellati. Si trattava di
annotazioni minime, che avrebbero potuto essere giustamente
scartate se non avessero messo questo lavoro di Prampolini del
1940 in corrispondenza con il modo sistematico e molto più
visibile con cui Alberto Burri e Lucio Fontana affrontarono in
seguito la materia della superficie delle loro opere.38
La mostra The Art of Assemblage di Seitz presentava
infatti due delle prime opere di Burri:
Sacco numero 5
(1953; Vinavil® e tempera su iuta e tela) e
Tutto nero (1956; colla Vinavil®, tempera, stracci su
tela). Entrambe le opere vennero illustrate nel catalogo della
mostra, che citava anche un estratto dal saggio di James
Johnson Sweeney del 1955 sull'artista: "Con Burri, il
collage ha assunto un'altra dimensione. Non è più un'attività
principalmente compositiva, un jeu d'esprit o un
gesto, egli gli ha conferito una qualità viva, un carattere
sensuale."39
Sappiamo che Burri aveva iniziato a lavorare negli anni
Cinquanta, seguendo l'esempio di Prampolini, studiando la
materia, e che Prampolini lo avera incoraggiato e sostenuto
apertamente fino all'anno della sua morte, nel 1956.40
Il nuovo approccio di Prampolini ai concetti di
"trasmutazione della materia" e di
"metamorfosi", come già accennato, portò l'artista
futurista a concepire la sua pratica artistica in modo
decisamente procedurale: la materia è, di per sé,
costantemente soggetta al cambiamento e l'artista opera su di
essa e con essa per trasformarla e rivelarne le molteplici
potenzialità.41
Prampolini ridefinì la natura del collage dissolvendo la
preoccupazione compositiva propria di questa tecnica in una
costante rielaborazione non solo dei materiali incollati sulla
superficie, ma della natura materica stessa del supporto. Nei
polimaterici, infatti, la distanza tra oggetto e sfondo è
annullata. È difficile non notare come, alla fine, Sweeney
abbia celebrato Burri per il tipo di conivolgimento con la
materia vivente che Prampolini aveva precedentemente messo a
nudo. Sweeney omise qualsiasi riferimento a Prampolini, e
Burri, in questa mostra americana, divenne l'iniziatore di una
svolta postbellica verso il bioplasticismo. "Ciò che con
i cubisti sarebbe rimasto un'intensificazione parziale della
composizione dipinta.… con Burri diventa un organismo
vivente", scrisse Sweeney.42
Sembra che i segni sulla superficie di
Automatismo Polimaterico C siano stati annullati
inavvertitamente dai restauratori, spingendo l'opera
nell'ambito che la critica aveva individuato per essa: nei
termini di Sweeney, quello di una composizione cubista o di un
jeu d'esprit surrealista. Se il legame tra Prampolini e Burri
era noto negli ambienti artistici italiani e riconosciuto
dalla critica, la relativa mancanza di attenzione per
l'artista negli Stati Uniti lasciò Prampolini soggetto agli
interessi e alle categorie critiche dei curatori locali.
Contribuì inoltre a isolare Burri e Fontana dai loro immediati
precedenti storici, tanto che in un saggio recente si arriva a
parlare dell'arte italiana degli anni Cinquanta come di
qualcosa che si è sviluppato nella "significativa assenza
del Futurismo."
43
Materialità futurista e materiali di restauro
L'archivio Winston Malbin rivela che opere private come i
polimaterici di Prampolini venivano regolarmente restaurate in
concomitanza con la loro esposizione in mostre organizzate da
musei americani. Pertanto, varrebbe la pena di approfondire
ulteriormente il rapporto tra la valutazione critica dell'arte
moderna e il suo restauro. Per farlo, potremmo tornare al caso
del cavalluccio marino staccato, quello che i Winston avevano
trovato insieme all'Automatismo Polimaterico C e che
Alessandro Prampolini aveva assicurato loro non appartenere a
quell'opera. Enrico Prampolini aveva utilizzato un cavalluccio
marino in un altro polimaterico, creato intorno al 1937 ed
esposto alla Galleria di Roma nel 1941 e alla Biennale di
Venezia l'anno successivo. L'opera, intitolata in un primo
tempo Stato d'animo plastico marino e successivamente
Automatismo Polimaterico B (1937, polimaterico su
gesso, Collezione VAF-Stiftung, Mart, Rovereto, (ill. 5), è composta da materiali diversi, tra cui un piccolo
galleggiante e, appunto, un cavalluccio marino.
ExpandIll. 5Enrico Prampolini (Modena, 1894 - Roma, 1956),
Stato d’animo plastico marino (Automatismo polimaterico
B), 1937, polimaterico su gesso, 33 x 41,5 cm; Mart, Museo
di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto
Collezione VAF-Stiftung.
Facendo eco alla mostra The Art of Assemblage del
MoMA del 1961, la mostra di Detroit del 1974 dedicata a Cobra
si concentrò sugli oggetti inseriti nelle opere di Prampolini.
Automatismo Polimaterico C (ill. 2) venne dunque
ribattezzato Sea theme (Polimaterico Automatismo C).
Fu quindi letto alla luce del precedente
Automatismo B e, per chiarire ulteriormente il
riferimento “marino” nel nuovo titolo, l’elenco dei materiali
riportò tra parentesi, come un fatto appurato, l’ipotesi
smentita da Alessandro Prampolini, e cioè che
Automatismo C contenesse originariamente un
cavalluccio marino, staccatosi e rotto durante la spedizione:
il catalogo riporta infatti che un sostituto per il
cavalluccio è stato inviato da Alessandro Prampolini ma non
ancora riattaccato.44
Ben poca attenzione fu prestata al modo in cui Prampolini
aveva interagito con la texture dello sfondo. Analogamente, il
sinuoso e fluido Polimaterico Automatismo A (1940)
venne descritto come un "collage di legno dipinto, osso,
spago e decorazioni natalizie in vetro", mentre il
Polimaterico Automatismo F (1941), fortemente
texturizzato, venne identificato come un "collage e olio
su tavola con piume, foglie, corteccia di sughero, cotone,
lana, carta, filo colorato e decorazioni natalizie in
vetro".45
Per quanto sia probabilmente vero che Prampolini abbia preso
le piccole sfere di vetro utilizzate in queste due opere da
una scatola di decorazioni natalizie, sarebbe difficile
trovarvi un qualsiasi simbolismo relativo alla festività
stessa. Come accennato in precedenza, il catalogo identificava
invece queste opere come "surrealiste" e le leggeva
alla luce degli assemblaggi di Spoerri ("opere del tardo
surrealismo [che] sono legate al Surrealismo e non sono
dissimili dai collage di Daniel Spoerri").46
I lavori di Prampolini furono esposti in una sezione della
mostra dedicata ai dadaisti e ai surrealisti, ed elencato con
loro nel catalogo, in ordine alfabetico, tra Picabia e
Schwitters. Lucio Fontana e Alberto Burri figuravano invece in
un'altra sezione, dedicata a Cobra e ai suoi
contemporanei.47
Una breve nota manoscritta datata 1961, conservata
nell'archivio di Winston Malbin, sembra suggerire che l'Automatismo Polimaterico C
sia stato restaurato per la prima volta in occasione della
mostra al MoMA. Tuttavia, solo in una nota di restauro più
completa, redatta nell'aprile del 1975 dal conservatore del
Museo Guggenheim, Orrin H. Riley, troviamo il resoconto del
lavoro svolto su di esso. Riley scrisse che l’opera era stata
«disassembled and generally cleaned»48
e indicò che alcune parti si stavano sfogliando. La superficie
era stata dipinta originariamente da Prampolini con colori a
olio e la base, sempre da quanto risulta dai documenti di
restauro, era costituita da una tavola di compensato. Riley
reincollò con gelatina le parti di pigmento che nel corso del
tempo si erano sollevate e mitigò con una ridipintura
("inpainting") diverse perdite in quello che venne
indicato come “strato rosso” ("red overlay").
Infine, venne "realizzato un montaggio speciale per
consentire di nascondere queste minute mancanze." È
possibile dunque che sia stato in questo momento che la nuova
ridipintura e l’incollatura a base di gelatina abbiano reso
più difficili da decifrare gli interventi segnici che
Prampolini aveva originariamente eseguito. Riley ci offre
anche un ulteriore scorcio della complessa sovrapposizione di
materiali che Prampolini aveva utilizzato per lo sfondo di
quest'opera, identificando in particolare l'uso di una sezione
di sughero (assente dai materiali elencati nei cataloghi delle
mostre del 1961 e del 1974), che il restauratore dovette
riposizionare perché si era staccata dallo sfondo.
Una fotografia di
Automatismo Polimaterico A nell'archivio di Winston
Malbin mostra una crepa sul lato inferiore destro (ill. 1).
Nella lettera del 6 agosto 1958 a Harry Winston, Alessandro
Prampolini aveva suggerito di restaurare la parte in gesso
incollando una striscia di tela lungo la fessura sul retro e
creando piccole aggiunte di gesso nelle parti che circondano
gli elementi metallici sporgenti sui lati. Non sono riuscita a
trovare una scheda di restauro per quest'opera, ma sembra che
sia stata effettivamente restaurata seguendo il consiglio di
Alessandro. Due più recenti studi sullo stato di conservazione
di Automatismo polimaterico B, svolti dal Museo
d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto,
evidenziano analoghi problemi di conservazione agli angoli
della struttura di supporto in gesso.49
In merito a Automatismo Polimaterico F (ill. 3),
correggendo Winston, Alessandro Prampolini aveva sostenuto che
la pallina di vetro era stata rotta di proposito dal fratello,
come ricordava anche Piero Dorazio. A questo punto, però,
Alessandro, forse temendo per la sorte dell’opera in America,
aveva aggiunto: "Dovrebbe controllare sulla fotografia se
la piuma in alto a destra è al suo posto; questo è uno dei
migliori polimaterici di Prampolini e sarei felice se fosse
completamente restaurato."50
A questo fine aveva inviato una busta con diverse piume
d’uccello, che potevano servire per sostituire quella
originale, se danneggiata (ill. 4). Da un confronto con una
più recente fotografia nell’archivio Malbin sembra che in
effetti la piuma sia stata sostituita. Tramite il resoconto
del restauro del 1975, veniamo anche a sapere di un’ulteriore
disgregazione della pallina di vetro, che Riley tentò di
salvare e riassemblare. I pezzi più minuti, che non riuscì a
riattaccare, vennero inseriti in una bustina di acetato
(«glassine») sul retro. Anche in questo caso, l'elemento di
supporto, un pannello di compensato (“pressed-wood panel”), ha
dovuto essere rinforzato perché era "quasi sul punto di
marcire agli angoli e ai margini".51
Le informazioni contenute in queste relazioni sullo stato di
conservazione e sul restauro sono talvolta in contrasto con i
dati sui materiali utilizzati dall'artista presenti nei
cataloghi delle mostre. I documenti attestano la presenza di
una pluralità di materiali, tra cui sughero e gesso,
utilizzati per creare un sistema stratificato di supporto e
per moltiplicare gli effetti materici. Sollecitano inoltre gli
studiosi a rivedere l'attuale valutazione del modus operandi
dell'artista e attestano ulteriormente come le sperimentazioni
materiche di Prampolini si stessero in quegli anni
allontanando dall'estetica tradizionale del collage, aprendo
la strada alle innovazioni procedurali di Burri e Fontana.
Lustrini vecchi e nuovi
Le piume di Prampolini non sono gli unici oggetti
originariamente incollati alle opere futuriste che vennero
sostituiti tramite l’intervento degli artisti o dei loro
familiari. Non sono neppure i soli oggetti capaci di far luce
sulle specificità dei collages futuristi.
In base ai documenti dell'archivio Winston Malbin, questo tipo
di sostituzione sembra essere stata una pratica comune. È il
caso ad esempio di
Mare=Danzatrice. Danseuse au Bord de la Mer (1913-14,
collezione privata) di Gino Severini, la prima opera futurista
ad entrare nella collezione Winston nel 1951. Alcuni documenti
del 1960-61 testimoniano del restauro attuato da Jean Volkmer,
restauratrice del MoMA, in occasione della mostra che quel
museo dedicò nel 1961 al Futurismo. Da questi si ricava che
quasi tutte le paillettes incollate sulla superficie del
dipinto vennero sostituite con altre paillettes che Severini
stesso aveva procurato ai Winston.52
La sostituzione si rese necessaria perchè l’adesivo usato in
origine per le paillettes da Severini, secondo il resoconto
della Volkmer, aveva una componente acquosa che aveva fatto
sollevare il film di colore sottostante alla paillette stessa
(il giallo), rendendolo instabile, e scoprendo la preparazione
bruna della tela. La Volkmer riportò che Severini aveva usato
due diverse tecniche per incollare le paillettes: o le aveva
semplicemente inserite nel colore ancora fresco, - questo
soprattutto nelle aree blu - oppure le aveva attaccate con una
pennellata di colla spessa sopra la paillette stessa. Il danno
alle paillettes originali era di due tipi: non solo il
semplice distacco, ma anche lo scolorimento e imbrunimento
della superficie riflettente.53
Le paillettes mancanti vennero identificate in base sia ad a
una fotografia che ai segni ancora esistenti nello strato
pittorico. Le nuove paillettes vennero incollate con
un’emulsione di polivinile acetato e poi ricoperte con uno
strato dello stesso composto.54
Confrontando tuttavia diverse fotografie dell'opera
nell'archivio Winston Malbin, sembra che Severini non abbia
inviato abbastanza paillettes, perché alcune sembrano
mancare55. Un passaggio da una delle lettere della Volkmer ai Winston
ci chiarisce anche la sorte di almeno un’altra opera di
Severini che non ha avuto altrettanta fortuna: "Sono
felice che lei abbia le paillettes originali, perché non
abbiamo potuto trovare una versione americana delle paillettes
del nostro [del MoMA n.d.a] Bal Tabarin, e ho dovuto
usare dei brutti sostituti che non sono all'altezza degli
originali."
56
La mostra del MoMA portò a una vera e propria campagna di
restauro delle opere della Collezione Winston. Jean Volkmer
riportò di aver corretto "una fessurizzazione"
("the crack pattern in the canvas") ne
La scala degli addii (conosciuto anche come
Salutando, 1909-10, collezione privata) di Balla, di
aver riempito con gesso alcune zone danneggiate della
superficie del Lavoro (1902 circa, collezione
privata), del quale suggerisce anche di far fare un’analisi ai
raggi x per rivelare una ulteriore firma intravista. Inserì
uno strato di carta giapponese in
Profumo
di Russolo (1910, MART, Collezione VAF-Stiftung, Rovereto), e
vi rimosse due chiodi. Infine, rimosse anche uno strato della
vernice del dipinto, che secondo la Volker era "badly
discolored." Forse per questo l’effetto cromatico
dell’opera oggi è molto più incisivo di quello di altri lavori
dell’artista.
57
La vernice di Russolo, così come le diverse tecniche
utilizzate da Severini per inserire le paillettes nelle opere,
rivelano quanto i futuristi fossero interessati in quegli anni
alla ricerca di luminosità e riflettività. Mostrano anche
quanto le scelte di conservazione adottate negli ultimi
cinquant'anni abbiano influenzato l'aspetto attuale di queste
opere.
L'esempio più lampante di questo si ha probabilmente con
Iniezione di Futurismo di Balla (c. 1918, collezione
privata). In quest'opera il materiale pittorico era già
notevolmente fragile; alcune parti lasciate a matita, mai
dipinte, rivelano la la tela grezza. La Volkmer iniziò a
pulire l'opera con acqua e, in alcune sezioni, una mistura
detergente. Decise poi di applicare una vernice incolore in
resina plastica e un foglio mylar trasparente.
58
Vent’anni dopo, durante un ulteriore restauro per riempire con
gesso alcune incrinature, la Volkmer giunse alla conclusione
che l’opera non era stata creata con la sola pittura ad olio,
ma usando dei non ben precisati mixed media.59
Per quanto la restauratrice avesse indicato all'epoca, nella
sua corrispondenza con la signora Winston, di voler passare
questa informazione alla curatrice Anne d’Harnoncourt, la cosa
non è mai stata riportata nelle pubblicazioni scientifiche.
L'opera è stata esposta molto raramente, e gli studiosi hanno
quindi continuato a indicarla semplicemente come un "olio
su tela."
60
Una situazione simile è testimoniata anche dal resoconto che
la Volkmer invia su
Compenetrazione iridescente (generalmente datata
1912, ma probabilmente creata successivamente, collezione
privata): "Il film pittorico, specialmente quello bianco,
è estremamente solubile in acqua. E al si sopra di questo film
pittorico l'artista ha usato un colore a cera rosso, che è
estremamente solubile nella maggior parte dei solventi. Questa
è una combinazione tremenda."61
Il "vizio inerente"della ricerca d’avanguardia
Ma le informazioni più preziose e forse più impressionanti
sono quelle che l’archivio Winston Malbin riporta sulla
scultura di Balla Il pugno di Boccioni.62
Nel 1961 la Volkmer indicò che la scultura era formata da due
parti distinte, spiegando:
La parte superiore poteva essere rimossa. La parte inferiore
doveva essere fissata alla base, ma le viti hanno ceduto col
tempo e la scultura si è allentata. Un insetto o un verme ha
attaccato l'opera, lasciando piccoli fori qua e là nelle
zone di legno. Ho fatto la fumigazione, ma non ho trovato
alcuna traccia di insetti. Probabilmente se ne erano andati
quando l'opera ha lasciato il clima che preferiva. Una
pulizia di prova ha indicato che l'opera è piuttosto sporca.
I rinforzi di nastro adesivo sulle varie giunzioni si sono
strappati o staccati in molti punti. La base di legno sta
iniziando a creparsi in un punto e si sta leggermente
arricciando verso l'alto, visto che non c'è verniciatura
sigillante sulla parte inferiore del legno.63
Per ovviare al sollevamento del legno, la Volkmer progettò di
stendere una mano di gommalacca ("shellac"),
riempire i buchi d’insetto con cera colorata, inserire nuovi
chiodini alla base, aggiungere un rinforzo in legno e
applicare una vernice di resina in spray opaco per proteggere
la superficie dipinta e intensificare il colore almeno un po'.
In giugno, riportò di aver eliminato le aggiunte di strisce
adesive che non si adattavano al resto dell’opera, e di averle
sostituite con lo stesso materiale originariamente usato
dall’artista, e cioè pezzi di buona carta di stracci,
"tagliata per conformarsi con lo slancio del movimento
della scultura."
64
La carta venne colorata per adeguarsi al resto della pittura
adiacente, originale. Alla fine, nessun supporto in legno
venne aggiunto. Nel febbraio 1962, quando la mostra del MoMA
aveva appena chiuso la sua ultima tappa a Los Angeles e
l’opera era tornata a Detroit nella residenza dei Winston,
Jean Volkmer vene chiamata per un’ulteriore riparazione. Come
scrive ella stessa ai proprietari, il MoMA rifiutò però di
pagare il danno sostenuto negli spostamenti perchè il museo
non lo interpretò come una richiesta accettabile sulla base
del contratto di assicurazione. Si trattava, piuttosto,
scrisse la Volkmer, di "un vizio inerente" alla
natura della scultura stessa. E aggiunse: "I materiali
usati dall’artista in quest’opera sono instabili e non possono
sostenere i cambi climatici imposti dal prestito." Pur
acconsentendo a recarsi di persona a Detroit per riparare la
scultura, Volkmer commentò: "Quest'opera è troppo
delicata per viaggiare, l'abbiamo scoperto in modo
infelice."65
Nel 1976, anche Orrin Riley del Guggenheim intervenne sulla
scultura, che era caduta da un’altezza di circa 76 centimetri
e si era deformata nella parte centrale del pezzo superiore.
Per restaurarla, la parte superiore venne stata staccata e
riattaccata. Non è chiaro dal resoconto come Riley l'abbia
rinforzata; utilizzò comunque strisce di lino.66
Poco più di dieci anni dopo, Lydia Winston Malbin fece
riportare la scultura al MoMA, perché la struttura interna era
collassata su se stessa.67
Come nel caso di Iniezione di Futurismo, quest’opera,
oggi in collezione privata, rimane visibile quasi
esclusivamente attraverso l’immagine pubblicata nel catalogo
della vendita all’asta della collezione Winston Malbin nel
1991. Questa presenza virtuale, di fronte alla fragilità
intrinseca dell’oggetto, è preconizzata in una lettera del
1973. In quell’occasione Lydia Winston suggerì addirittura a
Norbert Lynton dell’Arts Council britannico, che stava
organizzando la mostra Pioneers of Modern Sculpture,
di pubblicare un’illustrazione tratta da una sua vecchia
fotografia in bianco e nero, ma adeguatamente colorata, per
ovviare al fatto che Il pugno di Boccioni non poteva
essere esposto e neanche, pare, fotografato nello stato in cui
si trovava al momento.68
Andate e ritorni
Un’ultima questione rimane aperta. Come ha fatto dunque il
cavalluccio spezzato ad attraversare l’oceano nella cassa di
Automatismo polimaterico C di Prampolini?
Sappiamo che Enrico Prampolini aveva inserito un cavalluccio
marino in Stato d’animo plastico marino (Automatismo Polimaterico B; (ill. 5). Sappiamo anche che Alessandro Prampolini e Piero
Dorazio non ricordavano la presenza di un cavalluccio in
Automatismo Polimaterico C e che la fotografia che
Alessandro aveva di quest'opera non mostrava nessun
cavalluccio. Non è stato mai notato che, sul piano formale,
Polimaterico B e Polimaterico C si
rassomigliano notevolmente. In entrambi, ad un elemento
circolare a sinistra (un galleggiante bianco in B e
un disco piatto in C) corrisponde un altro elemento
circolare, più piccolo, a destra (una palla in B e un
disco piatto in C). In alto, tra i due, c'è un
elemento a contrasto: un legno forato in B, una
superficie blu translucida, simile alla testa di una medusa,
in C (ill. 2). In Automatismo B, il
cavalluccio marino è posizionato tra i due elementi circolari,
mentre in Automatismo C questo spazio è vuoto, ma
idealmente chiuso dalla linea creata dal cavo o tubino
gommato.69
Se entrambi avessero avuto al centro un cavalluccio e questo
si fosse staccato in Polimaterico C, prima della
morte di Enrico Prampolini, la scelta di non restaurare
l’opera sarebbe stata la sua. È possibile però che
l’inserzione del cavalluccio spezzato nella cassa dei tre
polimaterici acquistati dai Winston sia stata fortuita.
Dal catalogo della Biennale del 1942 sappiamo che Prampolini
vi espose almeno due polimaterici.70
Dalla lettera già citata di Harry Winston ad Alessandro
Prampolini veniamo anche a sapere che una delle due opere
esposte alla Biennale del 1942 deve essere stata
Automatismo Polimaterico F. Winston deve aver tratto
l’informazione dall’etichetta incollata sul retro dell’opera.
Consultando l’archivio dell’ASAC, scopriamo che l’altra opera
esposta fu Automatismo Polimaterico B.71
Se Prampolini espose solo Polimaterico B e
F a Venezia, come ha potuto il cavalluccio di
Polimaterico B finire nella cassa dei Winston più di
dieci anni dopo?
Riguardiamo attentamente le immagini. Una vecchia fotografia
di Polimaterico B, conservata nel fascicolo dedicato
a Prampolini all'Archivio della Biennale di Venezia e databile
attorno al 1942, ci mostra l’opera come la conosciamo: pallina
sulla destra, legno bucato in alto, galleggiante bianco a
sinistra. Solo un dettaglio appare, nella vecchia foto della
Biennale, stranamente fuori posto: il cavalluccio marino. La
coda è più dritta, quasi verticale. A un’analisi più accurata
ci accorgiamo che in Polimaterico B il cavalluccio
della foto del 1942 è stato sostituito con un altro, molto
simile nelle dimensioni, ma leggermente diverso nella linea
creata dal corpo (ill. 5). Non sappiamo per il momento quando questa sostituzione
ebbe luogo ma è possibile che, al ritorno da Venezia, il
cavalluccio di Polimaterico B si staccò. Forse,
dentro la cassa, si spezzò, cadde, e si incagliò nel supporto
dell’altra opera, acquistata poi dai Winston. Oppure il
distacco avvenne già a Venezia, e un addetto meno attento del
solito forse inserì le due parti del cavalluccio spezzato in
una delle casse, riutilizzata poi per spedire le opere ai
Winston. O forse, in alternativa, l'addetto lo inserì con
attenzione, ma sul retro dell'opera sbagliata. Solo anni dopo,
con i sussulti del viaggio in transatlantico, il cavalluccio
incastrato e dimenticato nel supporto sbagliato, può essere
riapparso sul fondo della cassa.
I dettagli precisi di come il cavalluccio marino si sia
trovato nella cassa rimangono un mistero. Ma la sua storia,
rintracciata a partire da poche righe nella lettera di un
collezionista, ci ha permesso di cogliere l'indelebile legame
tra il successo del futurismo sul mercato dell’arte negli
ultimi settant’anni, la sua canonizzazione nelle maggiori
collezioni pubbliche e private mondiali e le scelte fatte per
restaurare le sue opere. I problemi strutturali di queste
opere, che derivano spesso da una marcata sperimentazione
tecnica, rivelano i limiti non solo delle tecniche
conservative ma anche delle interpretazioni critiche che si
sono succedute nel corso dei decenni.
Le indagini moderne, rese molto sofisticate dall’avanzamento
dell’indagine scientifica e tecnologica, si trovano di fronte
ad una stratigrafia di manipolazioni spesso difficile da
gestire. Sono dunque i documenti d’archivio ancora esistenti
che permettono un’indagine più precisa della sequela di
restauri sostenuti da un’opera. Questi documenti guidano il
lavoro del restauratore moderno ma offrono anche al critico e
al pubblico la consapevolezza dell’instabilità temporale
dell’opera. Conoscere la sua storia materiale ci permette di
capire la distanza tra il suo aspetto attuale e quello
originale e, a volte, tra diversi momenti di “originalità,”
sanciti a più riprese dalle mani dell’artista colto a
restaurare la sua stessa opera. Come suggeriva Boccioni nel
1914, gli studiosi devono inserirsi in quella
"stratificazione" che il tempo ha imposto all'opera,
in quel "sedimento poetico che rende l'opera
irriconoscibile."72
Il caso dei documenti della collezione Winston rappresenta
forse un unicum nella storia del futurismo per via della loro
relativa accessibilità. Ma quante di queste informazioni
vengono effettivamente a far parte dei dati offerti dai
cataloghi ragionati degli artisti, dai cataloghi di mostre e
di collezioni pubbliche e private?
Le informazioni su queste opere e sul loro acquisto si
trovano nei Lydia Winston Malbin Papers, Beinecke
Library, Yale University, YCAL MSS 280 (di seguito
Winston Malbin Papers). Le tre opere sono state vendute
all'asta dopo la morte di Lydia Winston Malbin e
attualmente si trovano in collezioni private. Desidero
ringraziare Massimo Prampolini, Elena Cazzaro
dell'Archivio Storico delle Arti
Contemporanee-Fondazione La Biennale di Venezia, la
Beinecke Library, Davide Morandi della Collezione
Giancarlo e Danna Olgiati e Gabriele Salvaterra del
Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto e
Trento (MART) per l'aiuto nella ricerca. Desidero
inoltre esprimere la mia gratitudine ai tre lettori
anonimi di Materia per i loro suggerimenti.
↩︎
Anthony W. Smith, “Bleaching in Paper Conservation,” in
Restaurator: International Journal for the
Preservation of Library and Archival Material
33, n. 3–4 (2012): 223–48. See also
The Grove Encyclopedia of Materials and Techniques in
Art, ed. Gerard W. R. Ward (New York: Oxford University
Press, 2008), dove viene discussa la tecnica di
sbiancatura utilizzata pr i disegni (p. 170), le
ceramiche (p. 98), e i tessuti (p. 709).
↩︎
Alois Riegl, “The Modern Cult of Monuments: Its
Character and Its Origin (1903),” tradotto in inglese da
Kurt W. Forster and Diane Ghirardo,
Oppositions, no. 25 (1982): 21–51.
↩︎
Rosalind Krauss adha affrontato questo argomento, con
riferimento alla scultura, nel saggio
The Originality of the Avant-Garde and Other
Modernist Myths
(Cambridge, MA: MIT Press, 1985). Per una
riconsiderazione di questo paradigma in relazione alle
edizioni postume in scultura, cfr. Maria Elena Versari,
“Recasting the Past: On the Posthumous Fortune of
Futurist Sculpture,” Sculpture Journal 23, no.
3 (2014): 349–68.
↩︎
Ma si veda almeno
Theory and Practice in the Conservation of Modern
Contemporary Art: Reflections on the Roots and the
Perspectives
a cura di Ursula Shädler–Saub and Angela Weyer (Londra:
Archetype, 2010).
↩︎
Cfr. Marco Ciatti, “Science and Conservation at the
Florentine O.D.P. and Raphael’s
Madonna of the Goldfinch,” in
Science and Art: The Contemporary Painted Surface, a cura di Antonio Sgamellotti, Brunetto Giovanni
Brunetti, e Costanza Milani (Cambridge: Royal Society of
Chemistry, 2014), 253. Cfr. anche “Pulimento dei dipinti
ad olio,” in
L’arte del restauro: il restauro dei dipinti nel
sistema antico e moderno secondo le opere di
Secco-Suardo e del Prof. R. Mancia, a cura di Gino Piva (Milano: Hoepli, 1988), 146–49,
161–62.
↩︎
F. T. Marinetti, "Fondazione e Manifesto del
Futurismo," in Umberto Boccioni,
Pittura Scultura Futuriste. Dinamismo Plastico
(Milano: Edizioni Futuriste di "Poesia",
1914), 351
↩︎
Antonio Sant'Elia, "L'architettura futurista.
Manifesto," in Lacerba, II, n. 15 (1
Agosto 1914), 230.
↩︎
Maria Elena Versari, introduzione a Boccioni,
Futurist Painting Sculpture, 1–55, 281–83.
↩︎
Fabio Benzi, Il Futurismo (Milano: Federico
Motta, 2008), 57.
↩︎
Sharon Hirsh, “Carlo Carrà’s The Swimmers,” in
Arts Magazine 53, no. 5 (1979): 122–29. Per la
tendenza da parte di Carrà di aggiornare la proprie
opere, see Niccolò D’Agati, “Carlo Carrà, 1911–1913:
Simultaneità e Ritmi d’oggetti;
rimaneggiamenti e puntualizzazioni cronologiche,”
Critica d’Arte 78 (gennaio-giugno 2020): 69–84.
Per una presa di posizione originale in favore dello
studio scientifico delle opere d'arte futuriste, cfr.
Roberta Cremoncini e Mattia Patti (a cura di),
More Than Meets the Eye: New Research on the Estorick
Collection, ed. (Londra: Estorick Foundation, 2015).
↩︎
Sergio Angelucci e Philip P. Rylands, “Umberto Boccioni,
‘Dinamismo di un cavallo in corsa + case’: un restauro
problematico,” Bollettino d’Arte 77, n. 76
(1992): 133–42
↩︎
Cfr. Piero Pacini, “Un inedito e un ‘restauro’ di
Boccioni,” Critica d’arte, n. 154–56 (1977):
150–64; Angelucci e Rylands, “Umberto Boccioni”; Sergio
Angelucci, “Dinamismo di un cavallo in corsa + case: una
ricostruzione e una rilettura,” in
Umberto Boccioni: Dinamismo di un cavallo in corsa +
case, a cura di Philip P. Rylands (Venezia: Peggy
Guggenheim Collection, 1996), 25–41.
↩︎
Federica Rovati, “Opere di Umberto Boccioni tra 1914 e
1915,” Prospettiva, n. 112 (2003): 44–65.
↩︎
Ho proposto alcune riflessioni in merito nel saggio
“Recasting the Past” e, più recentemente,
nell'intervento “On the Unicity of Forms,” in
Boccioni no Brasil/Boccioni in Brazil: Reassessing
Unique Forms of Continuity in Space and Its Material
History, a cura di Ana Gonçalves Magalhães e Rosalind McKeever
(San Paolo: Edusp/MAC, 2022), 103–46.
↩︎
Harry Winston a Alessandro Prampolini, 24 luglio 1958,
Winston Malbin Papers, box 13, folder 121.
↩︎
"Perhaps it was glued to the white disc on the
lower right"; Alessandro Prampolini a Harry
Winston, 6 agosto 1958, Winston Malbin Papers, Box 13,
folder 121.
↩︎
Le incisioni sono ben visibili nella fotografia inviata
da Prampolini. Si trovano sul lato superiore sinistro
dell'opera, sopra la spugna rotonda e sotto i quattro
elementi circolari superiori (un'incisione orizzontale);
sul lato inferiore sinistro (un'incisione curva);
nell'angolo superiore destro (una serie di tre brevi
segni verticali); e in basso al centro (un'incisione
diagonale). Sul lato sinistro e in basso al centro sono
ancora visibili fori profondi e stretti.
↩︎
Si veda alla voce «4/P/45 AUTOMATISMO POLIMATERICO C»,
in Prampolini Dal Futurismo all’Informale,
Roma, Palazzo delle Esposizioni 25 marzo-25 maggio 1992
(Roma: Edizioni Carte Segrete, 1992) 328; e il catalogo
Futurism. A Modern Focus. The Lydia and Harry Lewis
Winston Collection, Collection (New York: Solomon R. Guggenheim
Museum, 1973), 240. Dei tre polimaterici presenti nel
catalogo Winston soltanto per
Automatismo Polimaterico F si indica un minimo
di informazioni supplementari: il supporto e il tipo di
pigmenti a olio (“collage and oil on board”; p. 240).
↩︎
Sotheby’s, New York,
The Collection of Lydia Winston Malbin, May 16,
1990, 80.
↩︎
William Chapin Seitz, The Art of Assemblage,
(New York: The Museum of Modern Art, 1961), 162.
↩︎
Una fotografia dell'allestimento, dove è visibile anche
l'opera di Prampolini, è disponibile online:
The Art of Assemblage, 4 ottobre 1961- 12
novembre, 1961, Photographic Archive, Museum of Modern
Art Archives, New York,
IN695.26. ↩︎
Cobra and Contrasts: The Lydia and Harry Lewis
Winston Collection
(Detroit: Detroit Institute of Art, 1974), 166.
↩︎
Daniel Spoerri,Not by Chance, a cura
di Stefano Pezzato (Prato: Centro per l’Arte
Contemporanea Luigi Pecci, 2007), 56.
↩︎
Enrico Prampolini,
Arte polimaterica (Verso un’arte collettiva?)
(Roma: OET Edizioni del Secolo, 1944), 9.
↩︎
Enrico Prampolini, prefazione alla
XLI Mostra della Galleria di Roma con le opere del
pittore futurista Enrico Prampolini, ora in
Prampolini dal Futurismo all’Informale, 313.
Cfr. anche Francesco Guzzetti,
Enrico Prampolini: opere dal 1926 al 1941
(Milano: ML Fine Art, 2023), 9–41.
↩︎
Prampolini, prefazione alla
XLI Mostra della Galleria di Roma, 313.
↩︎
Prampolini, prefazione alla
XLI Mostra della Galleria di Roma, 313. Cfr.
anche Eva Ori,
Enrico Prampolini tra arte e architettura: teorie,
progetti e arte polimaterica
(tesi di dottorato, Università di Bologna, 2014), 133,
ultima visione 2016,
http://amsdottorato.unibo.it/6275/. ↩︎
Per il concetto boccioniano, rimando al mio saggio
introduttivo a Boccioni,
Futurist Painting Sculpture.
↩︎
Ori, Enrico Prampolini tra arte e architettura,
129. ↩︎
L'uso di graffi, abrasioni e segni da parte di
Prampolini, così come di Fontana e Burri merita uno
studio più approfondito. Si veda almeno
Prampolini: Burri e la materia attiva, acura di
Luciano Caramel (Modena: Fonte D’Abisso, 1989).
↩︎
James Johnson Sweeney, Burri (Roma: Galleria
L’Obelisco, 1955), citato in Seitz,
Art of Assemblage, 136.
↩︎
Cfr. in particoalre Caramel,
Prampolini: Burri e la materia attiva. Una
lettera del 1952 testimonia del sostegno offerto dal
futurista al giovane artista. Si veda Prampolini,
Carteggio, 1916–1956 (Roma: Carte Segrete,
Rome, 1992), 266.
↩︎
Oltre ai concetti du “transmutazione della materia” and
“metamorfosi” di cui sopra, Prampolini si appropriò
anche di un concetto della teologia Cattolica, parlando
di “transustanziazione” della materia, per
suggerire la trasformazione della materia semplice in
materia artistica. Cfr.
Alberto Burri: The Trauma of Painting a cura di
Emily Braun, Megan Fontanella, and Carol Stringari (New
York: Guggenheim Museum Publications, 2015), 53.
↩︎
Rapporti di conservazione per
Stato d’animo plastico marino(Automatismo polimaterico B), 23 gennaio 2017 e
3 dicembre 2019, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di
Trento e Rovereto Archives.
↩︎
"You should check on the photo if the feather on
the upper right is at its place, this one is
particularly one of the best “polimaterici” by
Prampolini and I would appreciate if it could be
completely restored"; Alessandro Prampolini to
Harry Winston, 6 agosto 1958.
↩︎
"Come close to dry-rot at its corners and
margin;"qui, nota 48.
↩︎
“Almost all of the sequins had to be replaced.” Volkmer
a Lydia and Harry Winston, June 8, 1961, Winston Malbin
Papers, box 18, folder 166.
↩︎
Volkmer a Lydia Winston, 27 marzo 1961, Winston Malbin
Papers, box 15, folder 134.
↩︎
“A poly-vinyl acetate emulsion was used to adhere the
new sequins, and these in turn were coated with a
transparent layer of poly-vinyl acetate. The picture is
lined with fiberglass. Because the sequins do not permit
true flattening, the inscription on the back of the
original canvas is not as clear as it usually appears in
a normal fiberglass lining.” Volkmer a Lydia and Harry
Winston, 8 giugno 1961, Winston Malbin Papers, box 18,
folder 166.
↩︎
Questo è evidente se si confrontano le fotografie
contenute nel Winston Malbin Papers, box 15, folder 134.
Cfr. anche il confronto tra Futurism , acura di
J. C. Taylor (New York: Museum of Modern Art, New York,
1961), 73; e la foto a colori (difficile da decifrare)
nel catalogo della mostra del Guggenheim del 1973,
Futurism: AModern Focus, 191. Dato
che il catalogo del MoMA fu stampato in Germania e
pubblicato nel maggio del1961, e che a quell'epoca
laVolmer stava ancora lavorando al restauro, possiamo
dedurre che le immagini del 1961 della pubblicazione del
MoMA siano precedenti alla campagna di restauro del
1960–61.
↩︎
"I am delighted that you have the original sequins,
for we could not find an American version of our [del
MoMA n.d.a] “Bal Tabarin” sequins, and I had to use
nasty substitutes which did not compare with the
originals;" Volkmer a Lydia Winston, [Dicembre
1960], Winston Malbin Papers, box 15, folder 134. Il
problema della sostituzione delle paillettes di Severini
è anche evidente se si confronta lo stato attuale di
Ballerina Blu (1912, Collezione Gianni
Mattioli) con la fotografia di quest'opera pubblicata
nel catalogo del 1961 del MoMA dedicata al Futurismo,
nella quale si vedono numerosi punti bianchi causati dal
distacco delle paillette originali. Cfr.
Futurism, a cura di J. C. Taylor, 2.
↩︎
Volkmer a Lydia and Harry Winston, 8 giugno 1961,
Winston Malbin Papers, box 18, folder 166.
↩︎
Volkmer a Lydia and Harry Winston, 20 agosto 1961,
Winston Malbin Papers, box 1, folder 11.
↩︎
Volkmer a Lydia and Harry Winston, 9 luglio 1980,
Winston Malbin Papers, box 1, folder 11.
↩︎
Cfr. Fabio Benzi,
Giacomo Balla: Genio futurista (Milano: Electa,
2007), 169; e Elena Gigli,
12–29 Futur Balla (Milano: Arte Centro, 2008),
20. ↩︎
"The paint film, especially the white, is extremely
soluble in water. And on top of this paint film the
artist has used red wax crayon, which is extremely
soluble in most solvents. This is a terrible
combination;" Volkmer a Lydia and Harry Winston, 29
marzo 1961, Winston Malbin Papers, box 1, folder 12.
Sulla datazione delle Compenetrazioni di Balla,
e per quest'opera in particolare, cfr. Benzi,
Il Futurismo, 142–45; e Benzi, “Giacomo Balla e
le Compenetrazioni iridescenti: approfondimenti
e novità documentarie,” Storia dell’Arte 139,
n. 39 (2014): 157-173.
↩︎
Per la storia di quest'opera e le sue riedizioni, cfr.
Versari, “Recasting the Past.”
↩︎
Volkmer a Lydia and Harry Winston, 11 maggio 1980,
Winston Malbin Papers, box 18, folder 166.
↩︎
Volkmer a Lydia and Harry Winston, 8 giugno 1980,
Winston Malbin Papers, box 18, folder 166.
↩︎
Volkmer to Lydia and Harry Winston, 20 febbraio 1962,
Winston Malbin Papers, box 18, folder 166.
↩︎
Orrin H. Riley a Lydia Winston, 21 gennaio 1976, Winston
Malbin Papers, box 18, folder 166.
↩︎
"To strenghten the sculpture’s inner construcion
that seems to have collapsed"; Nota non firmata
datata aprile 1987, Winston Malbin Papers, box 18,
folder 166.
↩︎
Lydia Winston Malbin a Norbert Lynton, 6 marzo e 6
aprile 1973, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166.
↩︎
Ma Giovanni Lista identifica questo elemento come “corda
metallica”, si veda Lista, Enrico Prampolini,
248. ↩︎
XXIII Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale
di Venezia
(Venezia: Ferrari, 1942), 240, nn139–40 (as
Automatismi polimaterici). Cfr.
Prampolini dal Futurismo all’Informale, 328.
↩︎
Il sottofascicolo dedicato al 1942, nel fascicolo
dedicato all’artista conservato all'ASAC, contiene una
sola riproduzione fotografica, quella di
Automatismo Polimaterico B.
↩︎
Ill. 1Fotografia dell’opera di Enrico Prampolini,
Automatismo Polimaterico A (1940, cm. 30.5 x 42,
collezione privata) inviata ad Harry e Lydia Winston da
Alessandro Prampolini nel 1958, Beinecke Rare Book and
Manuscript Library, Yale University.
Ill. 2Enrico Prampolini, Automatismo polimaterico C, 1940,
polimaterico su tavola 33 x 40.6 cm, Giancarlo e Danna Olgiati
Collection, Lugano.
Ill. 3Enrico Prampolini, Automatismo polimaterico F, 1941,
collage e olio su tavola 32,4 x 40.6 cm, Collezione Giancarlo
e Danna Olgiati, Lugano.
Ill. 4Penne d’uccello e fotografie inviate a Harry e Lydia Winston
da Alessandro Prampolini nel 1958, Beinecke Rare Book and
Manuscript Library, Yale University.
Ill. 5Enrico Prampolini (Modena, 1894 - Roma, 1956),
Stato d’animo plastico marino (Automatismo polimaterico
B), 1937, polimaterico su gesso, 33 x 41,5 cm; Mart, Museo di
arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto Collezione
VAF-Stiftung.