IVb. L’avventura di una Piuma, di una Pallina di Vetro e di un Cavalluccio Marino: Riflessioni Metodologiche sulla Storia Materiale delle Opere Futuriste.

  • Maria Elena Versari

Nel 1958, tre polimaterici del futurista Enrico Prampolini entrarono nella collezione di Harry Winston e Linda Kahn Winston (poi Malbin). Nell’aprire le casse, gli Winston si accorsero dei danni sostenuti dalle opere durante la traversata atlantica e iniziarono una intensa corrispondenza con il fratello dell’artista, Alessandro Prampolini, con l’intento di restaurarle.

Questa corrispondenza segna il momento d’inizio di una vasta documentazione di restauro, accumulata negli anni dai collezionisti e ora conservata nell’archivio Winston Malbin. Il saggio qui presentato è il primo a studiare in maniera sistematica questa fonte archivistica unica e si propone di chiarire il sistema di sostituzioni, manipolazioni e ricostruzioni che hanno caratterizzato la vita di alcune delle più importanti opere futuriste di Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo, Enrico Prampolini e Umberto Boccioni.

I documenti rivelano caratteristiche tecniche e costruttive finora sconosciute delle opere in questione. Rivelano altresì il rapporto che si venne a creare tra preferenze curatoriali, interpretazioni estetiche e scelte conservative. Data l’importanza della storia materiale delle opere d’arte rivelata da questi documenti, il saggio sostiene non solo la necessità di impiegare in maniera più sistematica i dati provenienti dalle campagne di restauro negli studi storico-artistici, ma anche quella di inserirli tra le informazioni di base sulle opere offerte da cataloghi ragionati, cataloghi online e database di istituzioni pubbliche e private.

Siamo nel giugno 1958. Alessandro Prampolini, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Vittorio Orazi, entra nella stanza del fratello Enrico morto due anni prima. Lo spazio non è grande. Sul pavimento, un tappeto disegnato da Enrico, ai muri alcuni mobili anch’essi disegnati da lui; su di un lato, un grande transetto vetrato separa la camera dalla studio dell’artista. Alle pareti solo tre quadri: Automatismo Polimaterico A, Automatismo Polimaterico C e Automatismo Polimaterico F (Ills. 1, 2, 3).1

Expand Ill. 1 Fotografia dell’opera di Enrico Prampolini, Automatismo Polimaterico A (1940, cm. 30.5 x 42, collezione privata) inviata ad Harry e Lydia Winston da Alessandro Prampolini nel 1958, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University.
Expand Ill. 2 Enrico Prampolini, Automatismo polimaterico C, 1940, polimaterico su tavola 33 x 40.6 cm, Giancarlo e Danna Olgiati Collection, Lugano.
Expand Ill. 3 Enrico Prampolini, Automatismo polimaterico F, 1941, collage e olio su tavola 32,4 x 40.6 cm, Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano.

Alessandro si avvicina e stacca dai muri i tre polimaterici. Li osserva, per l’ultima volta, prima di metterli da parte. Partiranno il 26 giugno 1958 per l’America, a bordo di un transatlantico della Cunard Lines. Sono stati acquistati dalla coppia di collezionisti di Detroit Harry Winston e Lydia Kahn Winston (poi Malbin) per la loro già notevole raccolta di arte moderna.

La storia di questi tre polimaterici, e di diverse altre opere futuriste acquistate dai Winston, offre l’occasione per riflettere sulla storia materiale dell’arte del Novecento, un tema ancora poco considerato in relazione a questa produzione artistica.

Cosa guardiamo veramente quando guardiamo un’opera d’arte? Possiamo affermare con sicurezza che quel dettaglio di colore, il bilanciamento cromatico tra pittura e sfondo, il riflesso di luce dato da un lustrino, la selezione di quell’oggetto specifico inserito in un collage, e incollato in quella particolare posizione nell’economia della composizione, sono effettivamente scelte compiute dall’artista? A differenza della percezione che abbiamo dell’arte antica, per la quale la presenza di manipolazioni successive permane ormai come ombra inalienabile dell’originalità, l’arte moderna è ancora percepita come un raggruppamento di opere che hanno conservato la loro identità primigenia. Per le opere del Medioevo e del Rinascimento ci aspettiamo che il tempo abbia lasciato ben più di una patina, tutta una serie di indizi che ci suggeriscono le preoccupazioni e le interpretazioni, l’amore e le omissioni, di tutte quelle generazioni di persone che non conosciamo ma che ce le hanno trasmesse, di mano in mano, attraverso i secoli. Anche se le tracce non sono sempre evidenti, l’idea che un’opera sia stata tagliata, reintelata, corretta, ripulita, sbiancata,2 riverniciata, annerita, bucata e rattoppata, ridipinta, firmata e rifirmata è sentita come sempre possibile, e diviene ormai parte indistinguibile di quello che Alois Riegl definì valore intrinseco legato all’età dell’opera stessa. 3

Per le opere moderne, e in particolare per quelle futuriste, che si definiscono esplicitamente e volontaristicamente come moderne, l’idea stessa della modernità sembra invece aver cauterizzato la percezione del procedere temporale, quasi che un’opera futurista non sia per definizione soggetta al tempo, e alla manipolazione che il tempo e i suoi custodi le impongono. Ciò da un lato è dovuto al valore che diamo al momento concettuale nella definizione stessa di arte moderna. È il tocco originale dell’artista, che concepisce l’opera attraverso decisioni precise, a definirne l’identità. È nella concezione che si cristallizza l’opera. La realizzazione materiale diventa dunque un elemento necessario ma secondario, che non può e non deve rivelarsi in alcun modo problematico per non alterare la centralità ideativa dell’arte moderna.4 La conservazione dell'arte moderna ha ricevuto, inoltre, meno attenzione della conservazione dell'arte contemporanea, che sembra quasi ostentare il proprio invecchiamento davanti ai nostri occhi.5

L'arte moderna sembra risiedere dunque, in una sorta di amnesia materiale e temporale. Per le opere futuriste, questa amnesia materiale e temporale è rafforzata dalle caratteristiche proprie dell'epoca in cui il Futurismo è nato e si è sviluppato. Le opere futuriste hanno vissuto all'epoca di una rivoluzione nelle pratiche conservative e di restauro. Se nell'Ottocento si poteva smontare un polittico, tagliare una tavola o lavare una tela con la soda caustica, nel Novecento queste pratiche sono state apertamente criticate come anacronistiche e rifiutate. 6 Progressivamente, abbiamo acquisito la prospettiva che la manipolazione delle opere d'arte fosse il risultato di un'epoca passata, qualcosa che non avrebbe retto al giudizio dei nostri tempi (futuristi). Inoltre, gli stessi futuristi rifiutarono a gran voce, nei loro manifesti, l'idea che la il passare del tempo costituisse di per sè un valore. Nel Manifesto di Fondazione del Futurismo (1909), Filippo Tommaso Marinetti scrisse: "E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli! Eccoli!.… Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!.… Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!.…Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!.…"7 Questa purificazione celebrativa dal passato da parte del presente non doveva risparmiare i futuristi stessi. Marinetti evocò apertamente l'immagine di una nuova generazione che avrebbe dovuto gettare i futuristi "nel cestino," in un ciclo incessante di distruzione e pulizia dei resti artistici.8 Nel Manifesto dell'architettura futurista (1914), leggiamo: "I caratteri fondamentali dell'architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città."9

Pur abbracciando ostentatamente questa obsolescenza voluta, nel corso degli anni i futuristi si impegnarono in pratiche di aggiornamento più sottili. Già negli anni Dieci, ripubblicarono sistematicamente i loro manifesti con minime correzioni, rivelando l'evoluzione delle loro preoccupazioni teoriche.10 Sono noti anche per aver corretto le loro stesse opere d'arte. Nel 1912, prima di esporre a Parigi, ridipinsero diverse tele per eliminare ogni dettaglio troppo naturalistico o tradizionale.11 Il più famoso di questi aggiornamenti futuristi è probabilmente quello attuato su Le nuotatrici di Carlo Carrà (1910-12; Carnegie Museum of Art, Pittsburgh). Le donne, che ora sfoggiano costumi da bagno colorati, erano originariamente ritratte nude.12 Nel 1914, poche settimane dopo la pubblicazione del suo libro Pittura scultura futuriste, Umberto Boccioni affrontò la questione della temporalità delle opere d'arte, e di quelle futuriste in particolare, scrivendo: "Quando guardiamo un capolavoro - nessuno sa mai bene quale opera meriti questo nome - dobbiamo pensare che esso è il superstite di migliaia di capolavori, abortiti o scomparsi, e che nella vita stessa del suo autore esso rappresenta un momento completo forse, ma alle volte non il migliore nel senso di scoperta e d'indicazione. Quest'opera chiamata capolavoro è rimasta in vita per mille ragioni ignorate e casuali, tra migliaia di schizzi, abbozzi. quadri, ecc., periti per altrettante ragioni ignorate e casuali. Non dimentichiamo che la tradizione ci tramanda il capolavoro attraverso le generazioni, ognuna delle quali mediante la letteratura e la poesia lascia sul capolavoro una stratificazione, sedimento poetico che rende l'opera irriconoscibile."13 Per Boccioni, quindi, la storia materiale di un'opera d'arte era intrinsecamente connessa con la storia della sua interpretazione critica, cosa che poteva portare a un accumulo di malintesi.

Il netto rifiuto che i futuristi posero all'idea di conservazione, unito alle innovazioni novecentesche nelle pratiche della conservazione stessa, potrebbero far pensare che le opere futuriste siano in qualche modo naturalmente protette dalla loro fragilità materiale e da qualsiasi forma significativa di manipolazione. Possiamo invece trovare esempi eclatanti del contrario.

Il restauro, anzi i ripetuti restauri, di Dinamismo di un cavallo in corsa + caseggiati di Boccioni, ora alla Guggenheim Collection di Venezia, è stato definito giustamente "problematico."14 Quando, nel 1986, il museo decise di restaurare l'opera, studiosi e tecnici si confrontarono in un vivace dibattito sulla necessità di eliminare o mantenere gli elementi che erano stati aggiunti durante un precedente restauro effettuato negli anni Quaranta. In una rara iniziativa, il dibattito stesso fu poi reso pubblico insieme a un resoconto dettagliato delle scelte metodologiche che accompagnarono il processo di restauro.15 Più recentemente, la maniera in cui l’opera era stata esposta da Marinetti in casa sua ha sollevato nuovi interrogativi sulla sua concezione originale e sul modo in cui era stata costruita.16 Questa volontà di individuare a tutti i costi l'idea originale dell'artista ha però in qualche modo oscurato i problemi tecnici propri dell'opera di Boccioni. Gli studiosi hanno affrontato la sua scultura come una manifestazione senza soluzione di continuità dei suoi dipinti e delle sue teorie. Quando l'aspetto attuale di un'opera non corrisponde alle fotografie storiche, come nel caso della scultura Antigrazioso (1913; Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma), gli storici dell'arte sono stati più inclini a ipotizzare l'esistenza di più originali, invece di considerare la possibilità che Boccioni stesso abbia rimaneggiato o riparato il suo lavoro. Questo atteggiamento critico ha a sua volta offuscato la lotta dell'artista con le sfide materiali poste dal supporto che aveva scelto e gli indizi delle successive modifiche e rielaborazioni che intraprese. Si tratta di un processo che possiamo invece ripercorrere appieno solo riavvicinandoci allo sviluppo teorico di Boccioni alla luce della storia materiale delle sue opere.17

Detto questo, la fragilità delle opere di Boccioni sembra essere quasi un sottoprodotto del suo approccio sperimentale unico, e sembra più difficile pensare che altre opere futuriste abbiano sostenuto cambiamenti così radicali.

Ma torniamo ai nostri polimaterici.

Un viaggio movimentato

All’apertura delle casse, i Winston si accorsero di una serie di danni che le opere avevano sostenuto durante la traversata atlantica. Nell’archivio di Lydia Winston Malbin, conservato alla Beinecke Library, presso l’Università di Yale, si trova copia della lettera, datata 24 luglio 1958, che i Winston spedirono ad Alessandro Prampolini. È un vero e proprio cahier de doléances:

1. Auto Matismo - Poli Materico "A"
dimensioni 31 per 38 centimetri. Questo collage è stato ricevuto con il cavalluccio marino rotto e la spugna e il pezzo di gomma staccati, caduti sul fondo del quadro.

2. Auto Matismo - Poli Materico "C"
dimensioni 22 per 42 centimetri. Il gesso è spezzato di traverso al quadro ed è sbeccato attorno ai sostegni dove è attaccato.

3. Auto Matismo - Poli Materico "F"
dimensioni 41 per 31 centimetri. Questo è il collage esposto alla Biennale nel 1942. La pallina di vetro è rotta. Comunque, questo quadro specifico è in condizioni migliori rispetto al numero 1 e al numero 2.18

La corrispondenza tra i Winston e Prampolini e i successivi documenti che attestano i restauri delle opere nella collezione di Lydia Winston Malbin ci permettono di comprendere che tipo di interventi si sono succeduti sui polimaterici. Ci permettono anche, ed è forse questo il lato più interessante per lo storico dell’arte, di venire a conoscenza di alcune particolarità delle opere stesse che soltanto il lavoro di ricostruzione, smontaggio e rimontaggio può rivelare.

Il 6 agosto 1958 Alessandro Prampolini rispose a Harry Winston. Gli inviò una lettera con diversi allegati: tre fotografie delle opere, prese prima della partenza, e una busta con sette piume d’uccello (ill. 4). In primo luogo, però, corresse l’indicazione del collezionista riguardo ai titoli. Winston aveva inavvertitamente indicato Automatismo Polimaterico C come Automatismo Polimaterico A e viceversa.

Expand Ill. 4 Penne d’uccello e fotografie inviate a Harry e Lydia Winston da Alessandro Prampolini nel 1958, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University.

Di Automatismo Polimaterico C del 1940 (ill. 2), dunque, scrisse Alessandro, né lui né Piero Dorazio, che l’aveva assistito nella vendita, riuscivano a capire da dove potesse essersi staccato il cavalluccio marino. Nella foto che lui possedeva di quest’opera, e di cui mandò una copia a Winston, non si vedono cavallucci. "Forse era incollato al disco bianco sulla destra in basso,"19 sostenne, e incluse un disegno su lucido per spiegare dove potesse essere. Comunque, Alessandro disse di aver scritto a un vecchio amico a Capri, che aveva già procurato cavallucci a suo fratello, e promise di mandarne un altro per posta appena possibile. Per quanto riguarda il pezzo di spugna e il tubicino in gomma, Alessandro suggerì di riattaccarli seguendo la fotografia inviata.

Un'altra fotografia, più tarda, che si trova nell’archivio Malbin, mostra Polimaterico C riassemblato e quasi del tutto identico all’immagine inviata da Prampolini. Vi si vede, in particolare, un piccolo disco metallico (il bilanciere di un orologio), situato verso il centro dell'opera, a sinistra del disco bianco. Questa ruota è oggi ancora attaccata all'opera stessa, ma manca nella fotografia più antica, inviata da Prampolini. Diverse altre ruote dentate sono inserite in piccoli dischi bianchi, probabilmente di gesso, sparsi sulla parte superiore destra. In entrambe le fotografie dell'archivio Winston Malbin (quella inviata da Alessandro Prampolini e quella più recente), nella zona al sopra di esse è posizionata una molla. Oggi questo elemento appare riposizionato in basso, sotto i cinque dischi bianchi più a destra. Inoltre, alcuni segni sullo sfondo, gruppi di incisioni leggere che, insieme ai piccoli buchi, movimentano la superficie, sembrano sparite.20 Torneremo su questi segni e sul restauro delle tre opere, ma per il momento è importante sottolineare che ancora oggi permane una certa confusione tra gli studiosi non solo sui materiali specifici utilizzati da Prampolini nei suoi polimaterici, ma anche sulla natura di questo tipo di opere. Nel catalogo della collezione Winston Malbin del 1973, infatti, sono identificati semplicemente come "collage" o "collage e olio su tavola"; mentre nella retrospettiva del 1992 dedicata a Prampolini e curata da Enrico Crispolti, figurano, in modo altrettanto riduttivo, come "polimaterico su tavola".21 Come già accennato, nella sua corrispondenza Harry Winston parlava di Automatismo Polimaterico A come di un'opera in gesso, mentre il catalogo della vendita della collezione Malbin del 1990 lo riporta come "collage su ceramica".22

Mostre e genealogie putative

Queste opere ebbero un ritorno in auge inaspettato negli Stati Uniti, quando l'interesse per la pratica del collage e dell'assemblage si rafforzò in concomitanza con l'uso che ne fecero le neoavanguardie. Automatismo Polimaterico C, in particolare, fu l'unico, tra i polimaterici posseduti dai Winston, ad essere esposto nel 1961 alla mostra The Art of Assemblage del Museum of Modern Art (MoMA). In quell’occasione si incominciò a tentare di catalogare gli elementi disseminati sulla sua superficie: "oil on cardboard with rubber tubing, clock works, mica, sponge, bone."23 La mostra offrì un'interpretazione riduttiva dell'uso del collage da parte dei futuristi italiani; secondo il curatore William Seitz, “a differenza dei cubisti, gli obiettivi che [i futuristi] si proponevano .… non portarono a un esame di texture, materiali o oggetti.”24 Polimaterico C offriva abbastanza, in verità, in termini di texture e materiali. Gli oggetti non naturali presenti sulla sua superficie (tubi e ingranaggi di orologi) si fondono quasi senza soluzione di continuità con il tema marino della composizione, creando un sottile contrasto tra il meccanico e il naturale. Scorgiamo una medusa, che si muove armoniosa e compatta. Solo in un secondo momento ne percepiamo l'apparato meccanico. La complessa struttura a strati dell'opera di Prampolini destabilizza la distinzione tra superficie e sfondo, cosa che critici come Seitz, abituati ai tradizionali collage cubisti, forse trovarono difficile da decifrare. Inoltre, per evitare la questione del coinvolgimento dei futuristi con il regime fascista, Seitz cancellò l'idea stessa di una sopravvivenza del futurismo dopo la prima guerra mondiale, affermando che le innovazioni dei futuristi furono portate avanti "dopo il declino del futurismo[,] dai dada, che erano pacifisti e di mentalità internazionale piuttosto che nazionalisti e bellicosi." 25 Per questo motivo, Automatismo Polimaterico C di Prampolini del 1941 si ritrovò un po' isolato, appeso sulla parete di passaggio tra una sala che ospitava collage di carta incollata - tra cui la Signora alla colonna pubblicitaria di Kazimir Malevich del 1914 e la Donna seduta di Henri Laurens del 1918 - a un'altra sala che esponeva il Movimento immobile (Mouvement Immobile) di E.L.T. Mesens del 1960 (carte stampate incollate con inchiostro su cartone), La venditrice di frutta variabile (The Variable Costerwoman) di Ceri Richards del 1938 (legno dipinto, metallo galvanizzato perforato, ottone, bottoni di perle, corda e spago su tavole di legno parzialmente dipinte) e Senza titolo di Lee Bontecou del 1960 (acciaio, tela, stoffa e filo).26

Nel 1974, tutti e tre i polimaterici di Prampolini furono esposti a Detroit in occasione di una mostra di opere della collezione Winston dedicata al gruppo Cobra. Qui, di nuovo, sulla base del modello interpretativo istituito dalla mostra del MoMA, il rapporto di Prampolini col Futurismo viene completamente tralasciato. In merito ai polimaterici, il catalogo recita addirittura: "Queste tarde opere surrealiste sono legate al Surrealismo e non sono lontane dai collages di Daniel Spoerri."27 In linea con i quadri-trappola di Spoerri, dunque, a Detroit Prampolini diventa, insomma, un post-Surrealista, nonchè un proto-neo-dadaista. Gli assemblaggi di Spoerri, tuttavia, sono situazioni create per caso e semplicemente fissate dall'artista a futura memoria. Come ha spiegato l'artista stesso, le sue "trappole" sono

Oggetti trovati casualmente in situazioni di disordine o di ordine [che] vengono fissati al loro supporto esattamente nella posizione in cui si trovano. L’unica cosa che cambia è la posizione rispetto all’osservatore: il risultato viene dichiarato un quadro, l’orizzontale diventa verticale. Esempio: i resti di una colazione vengono attaccati al tavolo e, insieme al tavolo, appesi al muro.28

Sarebbe difficile immaginare che i polimaterici di Prampolini avessero semplicemente lo scopo di raggruppare un gruppo di oggetti sparsi, trovati in quel modo dall'artista.

Rimane a questo punto una domanda: cosa c'è di automatico nelle opere di Prampolini? "Automatismo" è un termine che l'artista italiano collegava al concetto di automatismo psichico, definito dagli scritti di Marinetti e Breton. 29 È una foma di automatismo che si distanzia dall'idea del caso. Come spiegava Prampolini stesso nel suo libro del 1944 Arte polimaterica (Verso un'arte collettiva?): l'artista che realizza polimaterici dovrebbe creare sulla base dell'intuizione e della sensibilità, in uno stato di "automatismo quasi mediatico." 30 Rispetto ai Surrealisti, che spesso utilizzavano la realtà per quello che Prampolini definiva un "fine polemico," il suo automatismo era vicino al valore evocativo della materia stessa, nel suo "valore immanente, biologico." 31 A volte i suoi lavori potevano anche incorporare un organismo vero e proprio.

Nei suoi polimaterici, Prampolini rielaborò motivi già apparsi nelle sue composizioni precedenti, improntate all'"idealismo cosmico." 32 Come chiarì egli stesso in occasione della sua personale alla Galleria di Roma del 1941, i suoi lavori riflettevano "una continua variazione del tema del 'divenire della materia.'" 33 L'inclusione della materia stessa nell'opera conduceva, secondo l'artista, "alla formazione di una estetica nuova, all’estetica bioplastica". Riprendendo il termine "plastico," già codificato da Boccioni, Prampolini spiegava che i nuovi esperimenti scientifici avevano portato a una nuova interpretazione estetica della materia:

Questa libera interpretazione dei nuovi aspetti della natura, rivelati dalla scienza, ha contribuito a individuare anche una nuova nomenclatura plastica. La tecnica della pittura futurista aveva già portato alla solidificazione dell’impressionismo, alle linee-forze, alla compenetrazione dei piani, alla sintesi di forma-colore. Oggi con l’immanenza delle forme che si sviluppano e vivono in nuove atmosfere e nuovi organismi si è giunti a ciò che definisco analogie plastiche.34

In questo quadro concettuale e lessicale, i polimaterici sono definiti da Prampolini come opere nelle quali "l’impiego degli oggetti e delle differenti materie nel loro aspetto naturale tendono a creare attraverso il loro contrasto una nuova dimensione emotiva."35

Prampolini tentò ripetutamente di trovare una definizione appropriata a questo tipo di opere. Tra il 1937 e il 1941, Prampolini passò dal boccioniano "stato d’animo plastico" (del Boccioni del 1913-14, di Pittura Scultura Futurista);36 al, sempre boccioniano, ma soprattutto severiniano, "analogie plastiche;" al più aggiornato "automatismo polimaterico." La ricerca teorica dell’artista, e la sua attenzione al problema lessicale, è testimoniata anche dal fatto che esistono ben cinque giri di bozze per il volume che egli pubblica nel 1944, Arte polimaterica (verso un’arte collettiva?).37

La dislocazione spaziale di queste opere in collezioni americane nella seconda metà del Novecento ha portato evidentemente a una sorta di “fagocitazione” della loro identità artistica da parte di categorie formali e interpretative proprie delle neoavanguardie internazionali. Inoltre, la necessità da parte dei Winston di presentare un sistema genealogicamente coerente sotteso alla propria collezione ha imposto ai polimaterici la responsabilità di doversi giustificare di volta in volta di fronte alle ultime tendenze artistiche. Sarebbe però importante capire se questo atteggiamento critico abbia avuto un impatto sulla vita materiale delle opere. La sovrascrittura di Spoerri sulle opere di Prampolini ha comportato scelte specifiche da parte dei restauratori?

Confrontando le fotografie di Automatismo Polimaterico C inviate nel 1958 da Alessandro Prampolini con quelle conservate nell'archivio Winston Malbin, abbiamo potuto individuare alcuni segni sullo sfondo, incisioni e fori, presenti in origine che oggi sono meno visibili e sembrano quasi cancellati. Si trattava di annotazioni minime, che avrebbero potuto essere giustamente scartate se non avessero messo questo lavoro di Prampolini del 1940 in corrispondenza con il modo sistematico e molto più visibile con cui Alberto Burri e Lucio Fontana affrontarono in seguito la materia della superficie delle loro opere.38 La mostra The Art of Assemblage di Seitz presentava infatti due delle prime opere di Burri: Sacco numero 5 (1953; Vinavil® e tempera su iuta e tela) e Tutto nero (1956; colla Vinavil®, tempera, stracci su tela). Entrambe le opere vennero illustrate nel catalogo della mostra, che citava anche un estratto dal saggio di James Johnson Sweeney del 1955 sull'artista: "Con Burri, il collage ha assunto un'altra dimensione. Non è più un'attività principalmente compositiva, un jeu d'esprit o un gesto, egli gli ha conferito una qualità viva, un carattere sensuale."39 Sappiamo che Burri aveva iniziato a lavorare negli anni Cinquanta, seguendo l'esempio di Prampolini, studiando la materia, e che Prampolini lo avera incoraggiato e sostenuto apertamente fino all'anno della sua morte, nel 1956.40 Il nuovo approccio di Prampolini ai concetti di "trasmutazione della materia" e di "metamorfosi", come già accennato, portò l'artista futurista a concepire la sua pratica artistica in modo decisamente procedurale: la materia è, di per sé, costantemente soggetta al cambiamento e l'artista opera su di essa e con essa per trasformarla e rivelarne le molteplici potenzialità.41 Prampolini ridefinì la natura del collage dissolvendo la preoccupazione compositiva propria di questa tecnica in una costante rielaborazione non solo dei materiali incollati sulla superficie, ma della natura materica stessa del supporto. Nei polimaterici, infatti, la distanza tra oggetto e sfondo è annullata. È difficile non notare come, alla fine, Sweeney abbia celebrato Burri per il tipo di conivolgimento con la materia vivente che Prampolini aveva precedentemente messo a nudo. Sweeney omise qualsiasi riferimento a Prampolini, e Burri, in questa mostra americana, divenne l'iniziatore di una svolta postbellica verso il bioplasticismo. "Ciò che con i cubisti sarebbe rimasto un'intensificazione parziale della composizione dipinta.… con Burri diventa un organismo vivente", scrisse Sweeney.42

Sembra che i segni sulla superficie di Automatismo Polimaterico C siano stati annullati inavvertitamente dai restauratori, spingendo l'opera nell'ambito che la critica aveva individuato per essa: nei termini di Sweeney, quello di una composizione cubista o di un jeu d'esprit surrealista. Se il legame tra Prampolini e Burri era noto negli ambienti artistici italiani e riconosciuto dalla critica, la relativa mancanza di attenzione per l'artista negli Stati Uniti lasciò Prampolini soggetto agli interessi e alle categorie critiche dei curatori locali. Contribuì inoltre a isolare Burri e Fontana dai loro immediati precedenti storici, tanto che in un saggio recente si arriva a parlare dell'arte italiana degli anni Cinquanta come di qualcosa che si è sviluppato nella "significativa assenza del Futurismo." 43

Materialità futurista e materiali di restauro

L'archivio Winston Malbin rivela che opere private come i polimaterici di Prampolini venivano regolarmente restaurate in concomitanza con la loro esposizione in mostre organizzate da musei americani. Pertanto, varrebbe la pena di approfondire ulteriormente il rapporto tra la valutazione critica dell'arte moderna e il suo restauro. Per farlo, potremmo tornare al caso del cavalluccio marino staccato, quello che i Winston avevano trovato insieme all'Automatismo Polimaterico C e che Alessandro Prampolini aveva assicurato loro non appartenere a quell'opera. Enrico Prampolini aveva utilizzato un cavalluccio marino in un altro polimaterico, creato intorno al 1937 ed esposto alla Galleria di Roma nel 1941 e alla Biennale di Venezia l'anno successivo. L'opera, intitolata in un primo tempo Stato d'animo plastico marino e successivamente Automatismo Polimaterico B (1937, polimaterico su gesso, Collezione VAF-Stiftung, Mart, Rovereto, (ill. 5), è composta da materiali diversi, tra cui un piccolo galleggiante e, appunto, un cavalluccio marino.

Expand Ill. 5 Enrico Prampolini (Modena, 1894 - Roma, 1956), Stato d’animo plastico marino (Automatismo polimaterico B), 1937, polimaterico su gesso, 33 x 41,5 cm; Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto Collezione VAF-Stiftung.

Facendo eco alla mostra The Art of Assemblage del MoMA del 1961, la mostra di Detroit del 1974 dedicata a Cobra si concentrò sugli oggetti inseriti nelle opere di Prampolini. Automatismo Polimaterico C (ill. 2) venne dunque ribattezzato Sea theme (Polimaterico Automatismo C). Fu quindi letto alla luce del precedente Automatismo B e, per chiarire ulteriormente il riferimento “marino” nel nuovo titolo, l’elenco dei materiali riportò tra parentesi, come un fatto appurato, l’ipotesi smentita da Alessandro Prampolini, e cioè che Automatismo C contenesse originariamente un cavalluccio marino, staccatosi e rotto durante la spedizione: il catalogo riporta infatti che un sostituto per il cavalluccio è stato inviato da Alessandro Prampolini ma non ancora riattaccato.44 Ben poca attenzione fu prestata al modo in cui Prampolini aveva interagito con la texture dello sfondo. Analogamente, il sinuoso e fluido Polimaterico Automatismo A (1940) venne descritto come un "collage di legno dipinto, osso, spago e decorazioni natalizie in vetro", mentre il Polimaterico Automatismo F (1941), fortemente texturizzato, venne identificato come un "collage e olio su tavola con piume, foglie, corteccia di sughero, cotone, lana, carta, filo colorato e decorazioni natalizie in vetro".45 Per quanto sia probabilmente vero che Prampolini abbia preso le piccole sfere di vetro utilizzate in queste due opere da una scatola di decorazioni natalizie, sarebbe difficile trovarvi un qualsiasi simbolismo relativo alla festività stessa. Come accennato in precedenza, il catalogo identificava invece queste opere come "surrealiste" e le leggeva alla luce degli assemblaggi di Spoerri ("opere del tardo surrealismo [che] sono legate al Surrealismo e non sono dissimili dai collage di Daniel Spoerri").46 I lavori di Prampolini furono esposti in una sezione della mostra dedicata ai dadaisti e ai surrealisti, ed elencato con loro nel catalogo, in ordine alfabetico, tra Picabia e Schwitters. Lucio Fontana e Alberto Burri figuravano invece in un'altra sezione, dedicata a Cobra e ai suoi contemporanei.47

Una breve nota manoscritta datata 1961, conservata nell'archivio di Winston Malbin, sembra suggerire che l'Automatismo Polimaterico C sia stato restaurato per la prima volta in occasione della mostra al MoMA. Tuttavia, solo in una nota di restauro più completa, redatta nell'aprile del 1975 dal conservatore del Museo Guggenheim, Orrin H. Riley, troviamo il resoconto del lavoro svolto su di esso. Riley scrisse che l’opera era stata «disassembled and generally cleaned»48 e indicò che alcune parti si stavano sfogliando. La superficie era stata dipinta originariamente da Prampolini con colori a olio e la base, sempre da quanto risulta dai documenti di restauro, era costituita da una tavola di compensato. Riley reincollò con gelatina le parti di pigmento che nel corso del tempo si erano sollevate e mitigò con una ridipintura ("inpainting") diverse perdite in quello che venne indicato come “strato rosso” ("red overlay"). Infine, venne "realizzato un montaggio speciale per consentire di nascondere queste minute mancanze." È possibile dunque che sia stato in questo momento che la nuova ridipintura e l’incollatura a base di gelatina abbiano reso più difficili da decifrare gli interventi segnici che Prampolini aveva originariamente eseguito. Riley ci offre anche un ulteriore scorcio della complessa sovrapposizione di materiali che Prampolini aveva utilizzato per lo sfondo di quest'opera, identificando in particolare l'uso di una sezione di sughero (assente dai materiali elencati nei cataloghi delle mostre del 1961 e del 1974), che il restauratore dovette riposizionare perché si era staccata dallo sfondo.

Una fotografia di Automatismo Polimaterico A nell'archivio di Winston Malbin mostra una crepa sul lato inferiore destro (ill. 1). Nella lettera del 6 agosto 1958 a Harry Winston, Alessandro Prampolini aveva suggerito di restaurare la parte in gesso incollando una striscia di tela lungo la fessura sul retro e creando piccole aggiunte di gesso nelle parti che circondano gli elementi metallici sporgenti sui lati. Non sono riuscita a trovare una scheda di restauro per quest'opera, ma sembra che sia stata effettivamente restaurata seguendo il consiglio di Alessandro. Due più recenti studi sullo stato di conservazione di Automatismo polimaterico B, svolti dal Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto, evidenziano analoghi problemi di conservazione agli angoli della struttura di supporto in gesso.49

In merito a Automatismo Polimaterico F (ill. 3), correggendo Winston, Alessandro Prampolini aveva sostenuto che la pallina di vetro era stata rotta di proposito dal fratello, come ricordava anche Piero Dorazio. A questo punto, però, Alessandro, forse temendo per la sorte dell’opera in America, aveva aggiunto: "Dovrebbe controllare sulla fotografia se la piuma in alto a destra è al suo posto; questo è uno dei migliori polimaterici di Prampolini e sarei felice se fosse completamente restaurato."50 A questo fine aveva inviato una busta con diverse piume d’uccello, che potevano servire per sostituire quella originale, se danneggiata (ill. 4). Da un confronto con una più recente fotografia nell’archivio Malbin sembra che in effetti la piuma sia stata sostituita. Tramite il resoconto del restauro del 1975, veniamo anche a sapere di un’ulteriore disgregazione della pallina di vetro, che Riley tentò di salvare e riassemblare. I pezzi più minuti, che non riuscì a riattaccare, vennero inseriti in una bustina di acetato («glassine») sul retro. Anche in questo caso, l'elemento di supporto, un pannello di compensato (“pressed-wood panel”), ha dovuto essere rinforzato perché era "quasi sul punto di marcire agli angoli e ai margini".51

Le informazioni contenute in queste relazioni sullo stato di conservazione e sul restauro sono talvolta in contrasto con i dati sui materiali utilizzati dall'artista presenti nei cataloghi delle mostre. I documenti attestano la presenza di una pluralità di materiali, tra cui sughero e gesso, utilizzati per creare un sistema stratificato di supporto e per moltiplicare gli effetti materici. Sollecitano inoltre gli studiosi a rivedere l'attuale valutazione del modus operandi dell'artista e attestano ulteriormente come le sperimentazioni materiche di Prampolini si stessero in quegli anni allontanando dall'estetica tradizionale del collage, aprendo la strada alle innovazioni procedurali di Burri e Fontana.

Lustrini vecchi e nuovi

Le piume di Prampolini non sono gli unici oggetti originariamente incollati alle opere futuriste che vennero sostituiti tramite l’intervento degli artisti o dei loro familiari. Non sono neppure i soli oggetti capaci di far luce sulle specificità dei collages futuristi.

In base ai documenti dell'archivio Winston Malbin, questo tipo di sostituzione sembra essere stata una pratica comune. È il caso ad esempio di Mare=Danzatrice. Danseuse au Bord de la Mer (1913-14, collezione privata) di Gino Severini, la prima opera futurista ad entrare nella collezione Winston nel 1951. Alcuni documenti del 1960-61 testimoniano del restauro attuato da Jean Volkmer, restauratrice del MoMA, in occasione della mostra che quel museo dedicò nel 1961 al Futurismo. Da questi si ricava che quasi tutte le paillettes incollate sulla superficie del dipinto vennero sostituite con altre paillettes che Severini stesso aveva procurato ai Winston.52 La sostituzione si rese necessaria perchè l’adesivo usato in origine per le paillettes da Severini, secondo il resoconto della Volkmer, aveva una componente acquosa che aveva fatto sollevare il film di colore sottostante alla paillette stessa (il giallo), rendendolo instabile, e scoprendo la preparazione bruna della tela. La Volkmer riportò che Severini aveva usato due diverse tecniche per incollare le paillettes: o le aveva semplicemente inserite nel colore ancora fresco, - questo soprattutto nelle aree blu - oppure le aveva attaccate con una pennellata di colla spessa sopra la paillette stessa. Il danno alle paillettes originali era di due tipi: non solo il semplice distacco, ma anche lo scolorimento e imbrunimento della superficie riflettente.53 Le paillettes mancanti vennero identificate in base sia ad a una fotografia che ai segni ancora esistenti nello strato pittorico. Le nuove paillettes vennero incollate con un’emulsione di polivinile acetato e poi ricoperte con uno strato dello stesso composto.54 Confrontando tuttavia diverse fotografie dell'opera nell'archivio Winston Malbin, sembra che Severini non abbia inviato abbastanza paillettes, perché alcune sembrano mancare55. Un passaggio da una delle lettere della Volkmer ai Winston ci chiarisce anche la sorte di almeno un’altra opera di Severini che non ha avuto altrettanta fortuna: "Sono felice che lei abbia le paillettes originali, perché non abbiamo potuto trovare una versione americana delle paillettes del nostro [del MoMA n.d.a] Bal Tabarin, e ho dovuto usare dei brutti sostituti che non sono all'altezza degli originali." 56

La mostra del MoMA portò a una vera e propria campagna di restauro delle opere della Collezione Winston. Jean Volkmer riportò di aver corretto "una fessurizzazione" ("the crack pattern in the canvas") ne La scala degli addii (conosciuto anche come Salutando, 1909-10, collezione privata) di Balla, di aver riempito con gesso alcune zone danneggiate della superficie del Lavoro (1902 circa, collezione privata), del quale suggerisce anche di far fare un’analisi ai raggi x per rivelare una ulteriore firma intravista. Inserì uno strato di carta giapponese in Profumo di Russolo (1910, MART, Collezione VAF-Stiftung, Rovereto), e vi rimosse due chiodi. Infine, rimosse anche uno strato della vernice del dipinto, che secondo la Volker era "badly discolored." Forse per questo l’effetto cromatico dell’opera oggi è molto più incisivo di quello di altri lavori dell’artista. 57

La vernice di Russolo, così come le diverse tecniche utilizzate da Severini per inserire le paillettes nelle opere, rivelano quanto i futuristi fossero interessati in quegli anni alla ricerca di luminosità e riflettività. Mostrano anche quanto le scelte di conservazione adottate negli ultimi cinquant'anni abbiano influenzato l'aspetto attuale di queste opere.

L'esempio più lampante di questo si ha probabilmente con Iniezione di Futurismo di Balla (c. 1918, collezione privata). In quest'opera il materiale pittorico era già notevolmente fragile; alcune parti lasciate a matita, mai dipinte, rivelano la la tela grezza. La Volkmer iniziò a pulire l'opera con acqua e, in alcune sezioni, una mistura detergente. Decise poi di applicare una vernice incolore in resina plastica e un foglio mylar trasparente. 58 Vent’anni dopo, durante un ulteriore restauro per riempire con gesso alcune incrinature, la Volkmer giunse alla conclusione che l’opera non era stata creata con la sola pittura ad olio, ma usando dei non ben precisati mixed media.59 Per quanto la restauratrice avesse indicato all'epoca, nella sua corrispondenza con la signora Winston, di voler passare questa informazione alla curatrice Anne d’Harnoncourt, la cosa non è mai stata riportata nelle pubblicazioni scientifiche. L'opera è stata esposta molto raramente, e gli studiosi hanno quindi continuato a indicarla semplicemente come un "olio su tela." 60

Una situazione simile è testimoniata anche dal resoconto che la Volkmer invia su Compenetrazione iridescente (generalmente datata 1912, ma probabilmente creata successivamente, collezione privata): "Il film pittorico, specialmente quello bianco, è estremamente solubile in acqua. E al si sopra di questo film pittorico l'artista ha usato un colore a cera rosso, che è estremamente solubile nella maggior parte dei solventi. Questa è una combinazione tremenda."61

Il "vizio inerente"della ricerca d’avanguardia

Ma le informazioni più preziose e forse più impressionanti sono quelle che l’archivio Winston Malbin riporta sulla scultura di Balla Il pugno di Boccioni. 62 Nel 1961 la Volkmer indicò che la scultura era formata da due parti distinte, spiegando:

La parte superiore poteva essere rimossa. La parte inferiore doveva essere fissata alla base, ma le viti hanno ceduto col tempo e la scultura si è allentata. Un insetto o un verme ha attaccato l'opera, lasciando piccoli fori qua e là nelle zone di legno. Ho fatto la fumigazione, ma non ho trovato alcuna traccia di insetti. Probabilmente se ne erano andati quando l'opera ha lasciato il clima che preferiva. Una pulizia di prova ha indicato che l'opera è piuttosto sporca. I rinforzi di nastro adesivo sulle varie giunzioni si sono strappati o staccati in molti punti. La base di legno sta iniziando a creparsi in un punto e si sta leggermente arricciando verso l'alto, visto che non c'è verniciatura sigillante sulla parte inferiore del legno.63

Per ovviare al sollevamento del legno, la Volkmer progettò di stendere una mano di gommalacca ("shellac"), riempire i buchi d’insetto con cera colorata, inserire nuovi chiodini alla base, aggiungere un rinforzo in legno e applicare una vernice di resina in spray opaco per proteggere la superficie dipinta e intensificare il colore almeno un po'. In giugno, riportò di aver eliminato le aggiunte di strisce adesive che non si adattavano al resto dell’opera, e di averle sostituite con lo stesso materiale originariamente usato dall’artista, e cioè pezzi di buona carta di stracci, "tagliata per conformarsi con lo slancio del movimento della scultura." 64 La carta venne colorata per adeguarsi al resto della pittura adiacente, originale. Alla fine, nessun supporto in legno venne aggiunto. Nel febbraio 1962, quando la mostra del MoMA aveva appena chiuso la sua ultima tappa a Los Angeles e l’opera era tornata a Detroit nella residenza dei Winston, Jean Volkmer vene chiamata per un’ulteriore riparazione. Come scrive ella stessa ai proprietari, il MoMA rifiutò però di pagare il danno sostenuto negli spostamenti perchè il museo non lo interpretò come una richiesta accettabile sulla base del contratto di assicurazione. Si trattava, piuttosto, scrisse la Volkmer, di "un vizio inerente" alla natura della scultura stessa. E aggiunse: "I materiali usati dall’artista in quest’opera sono instabili e non possono sostenere i cambi climatici imposti dal prestito." Pur acconsentendo a recarsi di persona a Detroit per riparare la scultura, Volkmer commentò: "Quest'opera è troppo delicata per viaggiare, l'abbiamo scoperto in modo infelice."65

Nel 1976, anche Orrin Riley del Guggenheim intervenne sulla scultura, che era caduta da un’altezza di circa 76 centimetri e si era deformata nella parte centrale del pezzo superiore. Per restaurarla, la parte superiore venne stata staccata e riattaccata. Non è chiaro dal resoconto come Riley l'abbia rinforzata; utilizzò comunque strisce di lino.66 Poco più di dieci anni dopo, Lydia Winston Malbin fece riportare la scultura al MoMA, perché la struttura interna era collassata su se stessa.67

Come nel caso di Iniezione di Futurismo, quest’opera, oggi in collezione privata, rimane visibile quasi esclusivamente attraverso l’immagine pubblicata nel catalogo della vendita all’asta della collezione Winston Malbin nel 1991. Questa presenza virtuale, di fronte alla fragilità intrinseca dell’oggetto, è preconizzata in una lettera del 1973. In quell’occasione Lydia Winston suggerì addirittura a Norbert Lynton dell’Arts Council britannico, che stava organizzando la mostra Pioneers of Modern Sculpture, di pubblicare un’illustrazione tratta da una sua vecchia fotografia in bianco e nero, ma adeguatamente colorata, per ovviare al fatto che Il pugno di Boccioni non poteva essere esposto e neanche, pare, fotografato nello stato in cui si trovava al momento.68

Andate e ritorni

Un’ultima questione rimane aperta. Come ha fatto dunque il cavalluccio spezzato ad attraversare l’oceano nella cassa di Automatismo polimaterico C di Prampolini?

Sappiamo che Enrico Prampolini aveva inserito un cavalluccio marino in Stato d’animo plastico marino (Automatismo Polimaterico B; (ill. 5). Sappiamo anche che Alessandro Prampolini e Piero Dorazio non ricordavano la presenza di un cavalluccio in Automatismo Polimaterico C e che la fotografia che Alessandro aveva di quest'opera non mostrava nessun cavalluccio. Non è stato mai notato che, sul piano formale, Polimaterico B e Polimaterico C si rassomigliano notevolmente. In entrambi, ad un elemento circolare a sinistra (un galleggiante bianco in B e un disco piatto in C) corrisponde un altro elemento circolare, più piccolo, a destra (una palla in B e un disco piatto in C). In alto, tra i due, c'è un elemento a contrasto: un legno forato in B, una superficie blu translucida, simile alla testa di una medusa, in C (ill. 2). In Automatismo B, il cavalluccio marino è posizionato tra i due elementi circolari, mentre in Automatismo C questo spazio è vuoto, ma idealmente chiuso dalla linea creata dal cavo o tubino gommato.69 Se entrambi avessero avuto al centro un cavalluccio e questo si fosse staccato in Polimaterico C, prima della morte di Enrico Prampolini, la scelta di non restaurare l’opera sarebbe stata la sua. È possibile però che l’inserzione del cavalluccio spezzato nella cassa dei tre polimaterici acquistati dai Winston sia stata fortuita.

Dal catalogo della Biennale del 1942 sappiamo che Prampolini vi espose almeno due polimaterici.70 Dalla lettera già citata di Harry Winston ad Alessandro Prampolini veniamo anche a sapere che una delle due opere esposte alla Biennale del 1942 deve essere stata Automatismo Polimaterico F. Winston deve aver tratto l’informazione dall’etichetta incollata sul retro dell’opera. Consultando l’archivio dell’ASAC, scopriamo che l’altra opera esposta fu Automatismo Polimaterico B.71 Se Prampolini espose solo Polimaterico B e F a Venezia, come ha potuto il cavalluccio di Polimaterico B finire nella cassa dei Winston più di dieci anni dopo?

Riguardiamo attentamente le immagini. Una vecchia fotografia di Polimaterico B, conservata nel fascicolo dedicato a Prampolini all'Archivio della Biennale di Venezia e databile attorno al 1942, ci mostra l’opera come la conosciamo: pallina sulla destra, legno bucato in alto, galleggiante bianco a sinistra. Solo un dettaglio appare, nella vecchia foto della Biennale, stranamente fuori posto: il cavalluccio marino. La coda è più dritta, quasi verticale. A un’analisi più accurata ci accorgiamo che in Polimaterico B il cavalluccio della foto del 1942 è stato sostituito con un altro, molto simile nelle dimensioni, ma leggermente diverso nella linea creata dal corpo (ill. 5). Non sappiamo per il momento quando questa sostituzione ebbe luogo ma è possibile che, al ritorno da Venezia, il cavalluccio di Polimaterico B si staccò. Forse, dentro la cassa, si spezzò, cadde, e si incagliò nel supporto dell’altra opera, acquistata poi dai Winston. Oppure il distacco avvenne già a Venezia, e un addetto meno attento del solito forse inserì le due parti del cavalluccio spezzato in una delle casse, riutilizzata poi per spedire le opere ai Winston. O forse, in alternativa, l'addetto lo inserì con attenzione, ma sul retro dell'opera sbagliata. Solo anni dopo, con i sussulti del viaggio in transatlantico, il cavalluccio incastrato e dimenticato nel supporto sbagliato, può essere riapparso sul fondo della cassa.

I dettagli precisi di come il cavalluccio marino si sia trovato nella cassa rimangono un mistero. Ma la sua storia, rintracciata a partire da poche righe nella lettera di un collezionista, ci ha permesso di cogliere l'indelebile legame tra il successo del futurismo sul mercato dell’arte negli ultimi settant’anni, la sua canonizzazione nelle maggiori collezioni pubbliche e private mondiali e le scelte fatte per restaurare le sue opere. I problemi strutturali di queste opere, che derivano spesso da una marcata sperimentazione tecnica, rivelano i limiti non solo delle tecniche conservative ma anche delle interpretazioni critiche che si sono succedute nel corso dei decenni.

Le indagini moderne, rese molto sofisticate dall’avanzamento dell’indagine scientifica e tecnologica, si trovano di fronte ad una stratigrafia di manipolazioni spesso difficile da gestire. Sono dunque i documenti d’archivio ancora esistenti che permettono un’indagine più precisa della sequela di restauri sostenuti da un’opera. Questi documenti guidano il lavoro del restauratore moderno ma offrono anche al critico e al pubblico la consapevolezza dell’instabilità temporale dell’opera. Conoscere la sua storia materiale ci permette di capire la distanza tra il suo aspetto attuale e quello originale e, a volte, tra diversi momenti di “originalità,” sanciti a più riprese dalle mani dell’artista colto a restaurare la sua stessa opera. Come suggeriva Boccioni nel 1914, gli studiosi devono inserirsi in quella "stratificazione" che il tempo ha imposto all'opera, in quel "sedimento poetico che rende l'opera irriconoscibile."72 Il caso dei documenti della collezione Winston rappresenta forse un unicum nella storia del futurismo per via della loro relativa accessibilità. Ma quante di queste informazioni vengono effettivamente a far parte dei dati offerti dai cataloghi ragionati degli artisti, dai cataloghi di mostre e di collezioni pubbliche e private?

  1. Le informazioni su queste opere e sul loro acquisto si trovano nei Lydia Winston Malbin Papers, Beinecke Library, Yale University, YCAL MSS 280 (di seguito Winston Malbin Papers). Le tre opere sono state vendute all'asta dopo la morte di Lydia Winston Malbin e attualmente si trovano in collezioni private. Desidero ringraziare Massimo Prampolini, Elena Cazzaro dell'Archivio Storico delle Arti Contemporanee-Fondazione La Biennale di Venezia, la Beinecke Library, Davide Morandi della Collezione Giancarlo e Danna Olgiati e Gabriele Salvaterra del Museo d'Arte Moderna e Contemporanea di Rovereto e Trento (MART) per l'aiuto nella ricerca. Desidero inoltre esprimere la mia gratitudine ai tre lettori anonimi di Materia per i loro suggerimenti. ↩︎

  2. Anthony W. Smith, “Bleaching in Paper Conservation,” in Restaurator: International Journal for the Preservation of Library and Archival Material 33, n. 3–4 (2012): 223–48. See also The Grove Encyclopedia of Materials and Techniques in Art, ed. Gerard W. R. Ward (New York: Oxford University Press, 2008), dove viene discussa la tecnica di sbiancatura utilizzata pr i disegni (p. 170), le ceramiche (p. 98), e i tessuti (p. 709). ↩︎

  3. Alois Riegl, “The Modern Cult of Monuments: Its Character and Its Origin (1903),” tradotto in inglese da Kurt W. Forster and Diane Ghirardo, Oppositions, no. 25 (1982): 21–51. ↩︎

  4. Rosalind Krauss adha affrontato questo argomento, con riferimento alla scultura, nel saggio The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths (Cambridge, MA: MIT Press, 1985). Per una riconsiderazione di questo paradigma in relazione alle edizioni postume in scultura, cfr. Maria Elena Versari, “Recasting the Past: On the Posthumous Fortune of Futurist Sculpture,” Sculpture Journal 23, no. 3 (2014): 349–68. ↩︎

  5. Ma si veda almeno Theory and Practice in the Conservation of Modern Contemporary Art: Reflections on the Roots and the Perspectives a cura di Ursula Shädler–Saub and Angela Weyer (Londra: Archetype, 2010). ↩︎

  6. Cfr. Marco Ciatti, “Science and Conservation at the Florentine O.D.P. and Raphael’s Madonna of the Goldfinch,” in Science and Art: The Contemporary Painted Surface, a cura di Antonio Sgamellotti, Brunetto Giovanni Brunetti, e Costanza Milani (Cambridge: Royal Society of Chemistry, 2014), 253. Cfr. anche “Pulimento dei dipinti ad olio,” in L’arte del restauro: il restauro dei dipinti nel sistema antico e moderno secondo le opere di Secco-Suardo e del Prof. R. Mancia, a cura di Gino Piva (Milano: Hoepli, 1988), 146–49, 161–62. ↩︎

  7. F. T. Marinetti, "Fondazione e Manifesto del Futurismo," in Umberto Boccioni, Pittura Scultura Futuriste. Dinamismo Plastico (Milano: Edizioni Futuriste di "Poesia", 1914), 351 ↩︎

  8. Marinetti, 352. ↩︎

  9. Antonio Sant'Elia, "L'architettura futurista. Manifesto," in Lacerba, II, n. 15 (1 Agosto 1914), 230. ↩︎

  10. Maria Elena Versari, introduzione a Boccioni, Futurist Painting Sculpture, 1–55, 281–83. ↩︎

  11. Fabio Benzi, Il Futurismo (Milano: Federico Motta, 2008), 57. ↩︎

  12. Sharon Hirsh, “Carlo Carrà’s The Swimmers,” in Arts Magazine 53, no. 5 (1979): 122–29. Per la tendenza da parte di Carrà di aggiornare la proprie opere, see Niccolò D’Agati, “Carlo Carrà, 1911–1913: Simultaneità e Ritmi d’oggetti; rimaneggiamenti e puntualizzazioni cronologiche,” Critica d’Arte 78 (gennaio-giugno 2020): 69–84. Per una presa di posizione originale in favore dello studio scientifico delle opere d'arte futuriste, cfr. Roberta Cremoncini e Mattia Patti (a cura di), More Than Meets the Eye: New Research on the Estorick Collection, ed. (Londra: Estorick Foundation, 2015). ↩︎

  13. Boccioni, Pittura Scultura Futuriste, 204. ↩︎

  14. Sergio Angelucci e Philip P. Rylands, “Umberto Boccioni, ‘Dinamismo di un cavallo in corsa + case’: un restauro problematico,” Bollettino d’Arte 77, n. 76 (1992): 133–42 ↩︎

  15. Cfr. Piero Pacini, “Un inedito e un ‘restauro’ di Boccioni,” Critica d’arte, n. 154–56 (1977): 150–64; Angelucci e Rylands, “Umberto Boccioni”; Sergio Angelucci, “Dinamismo di un cavallo in corsa + case: una ricostruzione e una rilettura,” in Umberto Boccioni: Dinamismo di un cavallo in corsa + case, a cura di Philip P. Rylands (Venezia: Peggy Guggenheim Collection, 1996), 25–41. ↩︎

  16. Federica Rovati, “Opere di Umberto Boccioni tra 1914 e 1915,” Prospettiva, n. 112 (2003): 44–65. ↩︎

  17. Ho proposto alcune riflessioni in merito nel saggio “Recasting the Past” e, più recentemente, nell'intervento “On the Unicity of Forms,” in Boccioni no Brasil/Boccioni in Brazil: Reassessing Unique Forms of Continuity in Space and Its Material History, a cura di Ana Gonçalves Magalhães e Rosalind McKeever (San Paolo: Edusp/MAC, 2022), 103–46. ↩︎

  18. Harry Winston a Alessandro Prampolini, 24 luglio 1958, Winston Malbin Papers, box 13, folder 121. ↩︎

  19. "Perhaps it was glued to the white disc on the lower right"; Alessandro Prampolini a Harry Winston, 6 agosto 1958, Winston Malbin Papers, Box 13, folder 121. ↩︎

  20. Le incisioni sono ben visibili nella fotografia inviata da Prampolini. Si trovano sul lato superiore sinistro dell'opera, sopra la spugna rotonda e sotto i quattro elementi circolari superiori (un'incisione orizzontale); sul lato inferiore sinistro (un'incisione curva); nell'angolo superiore destro (una serie di tre brevi segni verticali); e in basso al centro (un'incisione diagonale). Sul lato sinistro e in basso al centro sono ancora visibili fori profondi e stretti. ↩︎

  21. Si veda alla voce «4/P/45 AUTOMATISMO POLIMATERICO C», in Prampolini Dal Futurismo all’Informale, Roma, Palazzo delle Esposizioni 25 marzo-25 maggio 1992 (Roma: Edizioni Carte Segrete, 1992) 328; e il catalogo Futurism. A Modern Focus. The Lydia and Harry Lewis Winston Collection, Collection (New York: Solomon R. Guggenheim Museum, 1973), 240. Dei tre polimaterici presenti nel catalogo Winston soltanto per Automatismo Polimaterico F si indica un minimo di informazioni supplementari: il supporto e il tipo di pigmenti a olio (“collage and oil on board”; p. 240). ↩︎

  22. Sotheby’s, New York, The Collection of Lydia Winston Malbin, May 16, 1990, 80. ↩︎

  23. William Chapin Seitz, The Art of Assemblage, (New York: The Museum of Modern Art, 1961), 162. ↩︎

  24. Seitz, 26. ↩︎

  25. Seitz, 30. ↩︎

  26. Una fotografia dell'allestimento, dove è visibile anche l'opera di Prampolini, è disponibile online: The Art of Assemblage, 4 ottobre 1961- 12 novembre, 1961, Photographic Archive, Museum of Modern Art Archives, New York, IN695.26. ↩︎

  27. Cobra and Contrasts: The Lydia and Harry Lewis Winston Collection (Detroit: Detroit Institute of Art, 1974), 166. ↩︎

  28. Daniel Spoerri, Not by Chance, a cura di Stefano Pezzato (Prato: Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci, 2007), 56. ↩︎

  29. Enrico Prampolini, Arte polimaterica (Verso un’arte collettiva?) (Roma: OET Edizioni del Secolo, 1944), 9. ↩︎

  30. Prampolini, 9. ↩︎

  31. Prampolini, 9. ↩︎

  32. Giovanni Lista, Enrico Prampolini, Futurista Europeo (Rome: Carocci, 2013), 248. ↩︎

  33. Enrico Prampolini, prefazione alla XLI Mostra della Galleria di Roma con le opere del pittore futurista Enrico Prampolini, ora in Prampolini dal Futurismo all’Informale, 313. Cfr. anche Francesco Guzzetti, Enrico Prampolini: opere dal 1926 al 1941 (Milano: ML Fine Art, 2023), 9–41. ↩︎

  34. Prampolini, prefazione alla XLI Mostra della Galleria di Roma, 313. ↩︎

  35. Prampolini, prefazione alla XLI Mostra della Galleria di Roma, 313. Cfr. anche Eva Ori, Enrico Prampolini tra arte e architettura: teorie, progetti e arte polimaterica (tesi di dottorato, Università di Bologna, 2014), 133, ultima visione 2016, http://amsdottorato.unibo.it/6275/. ↩︎

  36. Per il concetto boccioniano, rimando al mio saggio introduttivo a Boccioni, Futurist Painting Sculpture. ↩︎

  37. Ori, Enrico Prampolini tra arte e architettura, 129. ↩︎

  38. L'uso di graffi, abrasioni e segni da parte di Prampolini, così come di Fontana e Burri merita uno studio più approfondito. Si veda almeno Prampolini: Burri e la materia attiva, acura di Luciano Caramel (Modena: Fonte D’Abisso, 1989). ↩︎

  39. James Johnson Sweeney, Burri (Roma: Galleria L’Obelisco, 1955), citato in Seitz, Art of Assemblage, 136. ↩︎

  40. Cfr. in particoalre Caramel, Prampolini: Burri e la materia attiva. Una lettera del 1952 testimonia del sostegno offerto dal futurista al giovane artista. Si veda Prampolini, Carteggio, 1916–1956 (Roma: Carte Segrete, Rome, 1992), 266. ↩︎

  41. Oltre ai concetti du “transmutazione della materia” and “metamorfosi” di cui sopra, Prampolini si appropriò anche di un concetto della teologia Cattolica, parlando di “transustanziazione” della materia, per suggerire la trasformazione della materia semplice in materia artistica. Cfr. Alberto Burri: The Trauma of Painting a cura di Emily Braun, Megan Fontanella, and Carol Stringari (New York: Guggenheim Museum Publications, 2015), 53. ↩︎

  42. Sweeney, Burri, 136. ↩︎

  43. Jaleh Mansoor, Marshall Plan Modernism: Italian Postwar Abstraction and the Beginnings of Autonomia (Durham, NC: Duke University Press, 2016), 10. ↩︎

  44. Cobra and Contrasts, 166. ↩︎

  45. Cobra and Contrasts, 166*.* ↩︎

  46. Cobra and Contrasts, 166. ↩︎

  47. Cobra and Contrasts, 166, 45, 61. ↩︎

  48. Orrin Riley, nota manoscritta [1975], Winston Malbin Papers, box 13, folder 122. ↩︎

  49. Rapporti di conservazione per Stato d’animo plastico marino (Automatismo polimaterico B), 23 gennaio 2017 e 3 dicembre 2019, Museo d’Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto Archives. ↩︎

  50. "You should check on the photo if the feather on the upper right is at its place, this one is particularly one of the best “polimaterici” by Prampolini and I would appreciate if it could be completely restored"; Alessandro Prampolini to Harry Winston, 6 agosto 1958. ↩︎

  51. "Come close to dry-rot at its corners and margin;"qui, nota 48. ↩︎

  52. “Almost all of the sequins had to be replaced.” Volkmer a Lydia and Harry Winston, June 8, 1961, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  53. Volkmer a Lydia Winston, 27 marzo 1961, Winston Malbin Papers, box 15, folder 134. ↩︎

  54. “A poly-vinyl acetate emulsion was used to adhere the new sequins, and these in turn were coated with a transparent layer of poly-vinyl acetate. The picture is lined with fiberglass. Because the sequins do not permit true flattening, the inscription on the back of the original canvas is not as clear as it usually appears in a normal fiberglass lining.” Volkmer a Lydia and Harry Winston, 8 giugno 1961, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  55. Questo è evidente se si confrontano le fotografie contenute nel Winston Malbin Papers, box 15, folder 134. Cfr. anche il confronto tra Futurism , acura di J. C. Taylor (New York: Museum of Modern Art, New York, 1961), 73; e la foto a colori (difficile da decifrare) nel catalogo della mostra del Guggenheim del 1973, Futurism: A Modern Focus, 191. Dato che il catalogo del MoMA fu stampato in Germania e pubblicato nel maggio del1961, e che a quell'epoca laVolmer stava ancora lavorando al restauro, possiamo dedurre che le immagini del 1961 della pubblicazione del MoMA siano precedenti alla campagna di restauro del 1960–61. ↩︎

  56. "I am delighted that you have the original sequins, for we could not find an American version of our [del MoMA n.d.a] “Bal Tabarin” sequins, and I had to use nasty substitutes which did not compare with the originals;" Volkmer a Lydia Winston, [Dicembre 1960], Winston Malbin Papers, box 15, folder 134. Il problema della sostituzione delle paillettes di Severini è anche evidente se si confronta lo stato attuale di Ballerina Blu (1912, Collezione Gianni Mattioli) con la fotografia di quest'opera pubblicata nel catalogo del 1961 del MoMA dedicata al Futurismo, nella quale si vedono numerosi punti bianchi causati dal distacco delle paillette originali. Cfr. Futurism, a cura di J. C. Taylor, 2. ↩︎

  57. Volkmer a Lydia and Harry Winston, 8 giugno 1961, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  58. Volkmer a Lydia and Harry Winston, 20 agosto 1961, Winston Malbin Papers, box 1, folder 11. ↩︎

  59. Volkmer a Lydia and Harry Winston, 9 luglio 1980, Winston Malbin Papers, box 1, folder 11. ↩︎

  60. Cfr. Fabio Benzi, Giacomo Balla: Genio futurista (Milano: Electa, 2007), 169; e Elena Gigli, 12–29 Futur Balla (Milano: Arte Centro, 2008), 20. ↩︎

  61. "The paint film, especially the white, is extremely soluble in water. And on top of this paint film the artist has used red wax crayon, which is extremely soluble in most solvents. This is a terrible combination;" Volkmer a Lydia and Harry Winston, 29 marzo 1961, Winston Malbin Papers, box 1, folder 12. Sulla datazione delle Compenetrazioni di Balla, e per quest'opera in particolare, cfr. Benzi, Il Futurismo, 142–45; e Benzi, “Giacomo Balla e le Compenetrazioni iridescenti: approfondimenti e novità documentarie,” Storia dell’Arte 139, n. 39 (2014): 157-173. ↩︎

  62. Per la storia di quest'opera e le sue riedizioni, cfr. Versari, “Recasting the Past.” ↩︎

  63. Volkmer a Lydia and Harry Winston, 11 maggio 1980, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  64. Volkmer a Lydia and Harry Winston, 8 giugno 1980, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  65. Volkmer to Lydia and Harry Winston, 20 febbraio 1962, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  66. Orrin H. Riley a Lydia Winston, 21 gennaio 1976, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  67. "To strenghten the sculpture’s inner construcion that seems to have collapsed"; Nota non firmata datata aprile 1987, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  68. Lydia Winston Malbin a Norbert Lynton, 6 marzo e 6 aprile 1973, Winston Malbin Papers, box 18, folder 166. ↩︎

  69. Ma Giovanni Lista identifica questo elemento come “corda metallica”, si veda Lista, Enrico Prampolini, 248. ↩︎

  70. XXIII Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia (Venezia: Ferrari, 1942), 240, nn139–40 (as Automatismi polimaterici). Cfr. Prampolini dal Futurismo all’Informale, 328. ↩︎

  71. Il sottofascicolo dedicato al 1942, nel fascicolo dedicato all’artista conservato all'ASAC, contiene una sola riproduzione fotografica, quella di Automatismo Polimaterico B. ↩︎

  72. Boccioni, Pittura Scultura Futuriste, 204-205. ↩︎

Ill. 1 Fotografia dell’opera di Enrico Prampolini, Automatismo Polimaterico A (1940, cm. 30.5 x 42, collezione privata) inviata ad Harry e Lydia Winston da Alessandro Prampolini nel 1958, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University.
Ill. 2 Enrico Prampolini, Automatismo polimaterico C, 1940, polimaterico su tavola 33 x 40.6 cm, Giancarlo e Danna Olgiati Collection, Lugano.
Ill. 3 Enrico Prampolini, Automatismo polimaterico F, 1941, collage e olio su tavola 32,4 x 40.6 cm, Collezione Giancarlo e Danna Olgiati, Lugano.
Ill. 4 Penne d’uccello e fotografie inviate a Harry e Lydia Winston da Alessandro Prampolini nel 1958, Beinecke Rare Book and Manuscript Library, Yale University.
Ill. 5 Enrico Prampolini (Modena, 1894 - Roma, 1956), Stato d’animo plastico marino (Automatismo polimaterico B), 1937, polimaterico su gesso, 33 x 41,5 cm; Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto Collezione VAF-Stiftung.
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